“Contributi” è la sezione di Vulcano dove vengono pubblicati gli articoli, le riflessioni e gli spunti che ci giungono da studenti e studentesse che non fanno parte della redazione. Con un fine: allargare il dibattito.
Visitare l’Ucraina, dopo l’invasione cominciata lo scorso 24 febbraio, permette di comprendere come non esistano buoni o cattivi, in alcun conflitto, nonostante spesso si tenda, in quanto più facile, a dividere il mondo in bianco e nero. Io stesso, prima di partire – mi sono recato in Ucraina cinque volte dall’inizio del conflitto – sentivo in diverse circostanze l’impellente necessità di separare, polarizzare. Ora so che non funziona così.
L’idea di partire alla volta dell’Ucraina è nata nel corso di una chiacchierata tra amici, dopo una giornata di ordinario lavoro di ufficio: io, tecnico commerciale, e il mio amico e collega Luca, in risorse umane. Ad un certo punto Luca avanza la proposta, sapendo che io avrei accettato subito: «Perché non facciamo un furgone di vestiti e beni alimentari e lo portiamo in Ucraina?».
Era il 5 marzo. Abbiamo immediatamente attivato amici e parenti e, in una settimana, con un volantino raffazzonato e un po’ di tam tam sui social, avevamo raggiunto 3.000 euro di contributi e 15 metri cubi di beni di prima necessità.
Le persone volevano partecipare. Volevano fare la loro parte. Noi avevamo solo stabilito la connessione tra la potenza e l’atto, tra la volontà di esserci e la concretezza del gesto. Era questo aspetto che ci galvanizzava più di tutto. Bisognava fare qualcosa.
E allora via, senza conoscere bene la meta, con un ducato a noleggio per la Slovenia e poi l’Ungheria, inseguendo una traccia trovata su Internet relativa a un campo profughi a Barabas, paesello rurale in mezzo al nulla al confine ucraino. Io e Luca avevamo motivi diversi che ci spingevano al nostro sforzo. Lui, quello nobile, per rivincita verso la parte più gretta ed ipocrita dell’umanità. Quella che regala un euro via messaggio e si lava la coscienza, per intenderci. Io, invece, per un miscuglio tra folle curiosità e speranza di lasciare un messaggio positivo a chiunque avrebbe letto le righe che non ho mai scritto, fino ad ora. Assurdo.
Il primo viaggio filò liscio: non ci spingemmo oltre il confine, perché i rifugiati erano ammassati a centinaia a Barabas, nel centro Caritas, e non fu necessario proseguire oltre.
Ricordo che ci mancò il coraggio di guardarle in faccia, quelle persone. E mi vergogno intimamente pensando che questo dipendeva dal fatto che fossero bianchi, come noi. Non accettavamo l’autenticità del loro dolore perché era una cosa che potevamo capire, in quanto empatici. Questo ci ha fatto capire quali molteplici facce possa assumere il razzismo. Nel nostro caso, si è trattato di una reazione quasi meccanica di empatia bianca. Mentre avremmo dovuto provare un sentimento profondo di condivisione del dolore con altri esseri umani, a prescindere.
La volta successiva partii da solo, due settimane dopo. Tornai a Barabas, con un nuovo furgone e un nuovo carico raccolto tra altri conoscenti, amici, parenti e associazioni.
Alla guerra devo la possibilità di aver conosciuto dozzine di persone buone. E di aver compreso che, anche nel momento più orribile, anche nel contesto più nero, c’è sempre qualcuno o qualcosa che vuole o fa il bene. Durante questo secondo viaggio, ad esempio, ho avuto la possibilità di conoscere Misha. Микаел, per la sua famiglia, un newyorkese figlio di russi scappati da San Pietroburgo all’indomani dell’invasione. Ho avuto poi la fortuna di incontrare tutta la famiglia a Budapest, dove attualmente risiedono, nelle settimane e nei viaggi seguenti.
Ho conosciuto Misha al confine unguerese-ucraino. Lui non poteva attraversare perché il suo passaporto, anche se americano, aveva diversi timbri russi. Gli ucraini non l’avrebbero tollerato.
Io, invece, non avevo questo problema, così sono riuscito a passare insieme ad alcuni volontari della Caritas ucraina. L’ho fatto altre 4 volte. Prevalentemente in Transcarpazia, la regione più occidentale dell’Ucraina, dove prima della guerra vivevano un milione e mezzo di persone. Ora ce ne saranno circa sei milioni. La logica è semplice: gli ucraini non vogliono lasciare il loro paese, dato che le famiglie vedono gli uomini tra i 16 e i 60 anni costretti a combattere, per cui si spostano nelle regioni più sicure. La Transcarpazia, al confine ungherese, è una di queste. La conseguenza negativa di tale sovrappopolazione è che manca tutto. La guerra del grano ha portato via anche gli alimenti base, e le infrastrutture (già non molto all’avanguardia) non reggono.
Ci si rende conto dell’assurdità del conflitto appena si passa il confine. Ragazzini di 16-18 anni, con un Kalashnikov più grande di loro, a presidiare le barriere.
Tettoie in lamiera con guardie nevrotiche pronte a ispezionare ogni angolo del veicolo in cerca di non si sa bene quale minaccia per il loro paese. Ma io, dalla mia, avevo un passaporto italiano, un convoglio della Caritas e un sacco di peluches per bambini. Ne avevo messo uno sul cruscotto, quello di Nemo, il personaggio del cartone animato, un po’ per scaramanzia, un po’ perché bisognava apparire innocui, e questo sembrava essere un metodo efficace.
Oltre il confine, un paese rurale, con macchine Lada (la Fiat dell’URSS, ndr) e carretti con cavalli. E poi, i paeselli imbottiti di altoparlanti e megaschermi da cui fuoriuscivano immagini e musiche patriottiche. Ho lasciato i viveri in un orfanotrofio, dove 80 persone, di cui 40 bambini, cercavano un po’ di riposo dopo la fuga dal fronte del Donbas o della Crimea. Ciò che più mi ha colpito è stato rendermi conto di come nessuno di loro fosse infettato di odio verso i russi. Il quadro che mi sono fatto, dunque, è quello di una grande guerra civile, in cui ucraini e russi sono sostanzialmente fratelli o cugini divisi da meccaniche più grandi di loro.
Non dimenticherò mai, poi, l’umanità e la dignità con cui sono stato accolto da queste persone, frutto di una sicurezza nel fatto che l’orrore che avevano visto non sarebbe rimasto relegato a lungo oltre i confini orientali. Pacatamente, gli ucraini mi hanno insegnato che il male è sempre in agguato, e basta poco perché dilaghi ovunque. D’altra parte, però, voglio credere nel fatto che, affinché il male sia sconfitto o per lo meno contenuto, sia sufficiente lasciare spazio a quanto di buono c’è nel mondo.
Articolo di Simone Contro.