Del: 26 Settembre 2022 Di: Redazione Commenti: 0
La progressiva digitalizzazione dell’identità, un'analisi

Cosa provano le persone nei confronti della digitalizzazione? Questa è la domanda che ha innescato la curiosità di Andera Gadeib, scrittrice tedesca e promotrice di uno studio che ha coinvolto circa mille individui, tra uomini e donne, provenienti da tutta la Germania.

Oggetto della ricerca era conoscere le sensazioni delle persone nei confronti del continuo progresso digitale: “How do people feel about digitalization?”, lo slogan utilizzato.

I risultati sono stati estremamente rilevanti: l’11 % si è categoricamente opposto all’innovazione, il 28% ha mostrato indecisione, mentre la stragrande maggioranza, il 61%, si è presentata più tollerante (di questi, solo un individuo su 5 ha dimostrato ferma convinzione circa i benefici di un mondo più digitale).

Rilevando il fenomeno dal punto di vista sociale, osserviamo che circa tre uomini su quattro si mostrano favorevoli, a differenza, le donne dispensano maggiori segni di indecisione e/o rifiuto (si parla di quasi la metà), e che i ragazzi più giovani (under 29), sono molto più aperti alle tecnologie rispetto agli individui di età adulta, dai quali sorgono i maggiori segnali d’ostilità. Lo studio è stato condotto in Germania, e non in Italia, ove l’analfabetismo digitale assume dimensioni più considerevoli: sebbene sia stato rilevato un leggero incremento rispetto agli anni precedenti, il rapporto DESI 2022 (Digital Economy and Society Index, indice delle competenze digitali di base) colloca l’Italia al quartultimo posto fra i 28 Stati Membri dell’UE, subito prima di Polonia e Bulgaria.

Lo stesso Istat nell’ultimo rapporto Cittadini e ICT ammette che solo “il 29,1% degli utenti di internet di 16-74 anni ha competenze digitali elevate; la maggioranza degli internauti ha invece competenze basse (41,6%) o di base (25,8%); vi è una nicchia di internauti che non ha alcuna competenza digitale (3,4%, pari a 1 milione e 135 mila)”. Invece, con riferimento al gender gap: “[…] l’uso di Internet è caratterizzato da un divario di genere a favore degli uomini (71,7% contro 64,2% delle donne), tali differenze sono tuttavia molto contenute e si annullano tra i giovani fino a 19 anni”.

Alla luce di questi dati emergono delle inaspettate, ma innegabilmente peculiari analogie, con lo studio di matrice tedesca. Il livello di anzianità rimane in entrambi i casi il principale fattore discriminante nell’utilizzo di Internet; il divario di genere, invece, ha un effetto meno sistemico: diminuisce fino ad azzerarsi, con lo scendere dell’età. Insuscettibili, le esigenze della nuova economia non si curano dell’anacronismo sociale, proiettandosi verso un mondo più rapido negli scambi, più sicuro nelle transazioni e più rispettoso dell’ambiente, senza mai rinunciare ad un incrementale abbattimento di costi e sprechi: in questo frangente sta intervenendo la tecnologia, con soluzioni che tendono sempre più frequentemente all’inevitabile unione tra reale e digitale.

A proposito, stanno facendo parlare di sé alcuni recenti strumenti, concepiti da programmatori, ingegneri e tecnici vari, per assolvere ad un compito ben preciso: le inefficienze dei processi umani. Con processi umani si fa riferimento ad un’organizzazione di sistema che tutt’oggi lega i privati con i privati, ed i medesimi con le pubbliche amministrazioni.

Qui la problematica non sorge dal punto di vista pratico (anche se possono essere rilevate criticità comunque): sono le procedure di matrice burocratico-formale il fattore invalidante di questi processi. La digitalizzazione potrebbe risolvere siffatti problemi? Un’opinione contrastante solleverebbe prontamente ipotesi di eventuali rischi/problemi di autenticazione, sottoscrizione e riservatezza, che potrebbero sorgere a causa della poca affidabilità di cui ancor oggi si accusa il digitale (con riferimento alla sicurezza e alla veridicità delle informazioni). Oggi, infatti, questi compiti sono assolti da un pubblico ufficiale (si pensi ad un notaio), il quale seguendo determinate procedure è autorizzato ad attribuire ad un atto pubblico quella particolare garanzia di veridicità che si chiama “pubblica fede”.

Si tratta di procedimenti estremamente impacciati, che costano tempo e denaro, e che nondimeno fanno perdere ogni anno miliardi e miliardi di euro alla pubblica amministrazione (57,2 miliardi, il costo della burocrazia italiana aggiornato al 2021). Di fronte ad un siffatto spreco è necessaria una minuziosa analisi delle diverse alternative. Ad oggi, la più efficiente, la più sostenibile e la più economica, rimane comunque il digitale.

Per quanto invece riguarda i possibili problemi di autenticazione, sottoscrizione e riservatezza? La più moderna scienza si è impegnata a risolverli, partendo dall’utilizzo di circuiti online per usufruire dei servizi pubblici, alla notarizzazione (su blockchain), partorendo negli ultimi anni strumenti efficienti e ambiziosi, compiendo nondimeno un passo decisivo verso la “transizione digitale”. A riguardo, il primo concetto che dev’esser definito è quello di identità digitale.

Quella che per noi è il senso e la consapevolezza di sé, e che lo Stato formalmente riconosce fornendoci un documento d’identificazione personale, nel mondo digitale è una raccolta di dati volti a rappresentare una persona o un’entità online.

Essa è di base costituita da informazioni personali, demografiche e comportamentali, comprese le azioni online tracciate (tutte cose che possono essere limitate, conservando l’anonimato): cioè dei piccoli frammenti di dati sull’utente, memorizzati e utilizzati per migliorare la navigazione (cookies), aiutando al contempo i vari inserzionisti online a comprendere e monitorare le prestazioni delle campagne pubblicitarie. Fuori dal marketing, la sua funzione preminente è quella di consentire un sicuro accesso ad un sistema informatico, e di sottoscrivere validamente un documento digitale.

Essa da poco trova rilevo anche nel nostro ordinamento, che mosso dai fondi PNRR (uno degli obiettivi è infatti quello di diffondere l’identità digitale, assicurando che venga utilizzata entro il 2026 dal 70% della popolazione) ha conferito validità giuridica all’ID, introducendo un Sistema Pubblico d’Identità Digitale (SPID) e una Carta d’Identità elettronica (CIE).

Soffermandoci sul primo, lo SPID è (per l’appunto) un’identità digitale composta da una coppia di credenziali (username e password) strettamente personali, con le quali è possibile accedere ai servizi online della pubblica amministrazione e dei privati aderenti. Il principale vantaggio per gli utenti è che non dovranno più gestire credenziali diverse a seconda del servizio che vogliono utilizzare, potendo al tempo stesso contare su sistemi di identificazione più sicuri. Gli Uffici pubblici potranno invece abbandonare i sistemi di autenticazione gestiti localmente, risparmiando risorse ed offrendo un servizio omogeneo su tutto il territorio nazionale.

L’utilizzo dello SPID per la sottoscrizione di documenti informatici ha portato spesso a confonderela sua funzione con quella di una firma digitale o elettronica avanzata, che parimenti vengono utilizzate per accertare la propria identità digitalmente, presentando però indubbie differenze.

Il primo è un sistema di identità digitale per accedere ai servizi online delle pubbliche amministrazioni; le seconde sono un particolare tipo di sottoscrizione basata su una coppia di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, che consente di verificare la provenienza e l’integrità di un documento: in poche parole, l’equivalente elettronico della tradizionale firma autografa su carta. L’Italia ha fatto da pioniera anche nel campo della digitalizzazione della firma, divenendo il primo paese Ue (e tra i primi al mondo) a conferirle piena validità: “il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia di scrittura privata quando vi è apposta una firma digitale o altro tipo di firma elettronica” (d.lgs. 26 agosto 2016, n. 179, art. 1-bis) (ma anche, art. 8-ter d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 artt. 3 e 4).

Questo strumento ha di fatto rivoluzionato il campo della contrattazione, permettendo di firmare documenti informatici legalmente vincolanti, da dispositivi lontani chilometri e chilometri tra loro. E per quanto riguarda la sicurezza? Esse sono più sicure della tipologia autografa (pur sempre a rischio falsificazione), nondimeno i suoi standard e le sue caratteristiche sono contenute nel regolamento UE n° 910/2014, fondamentale al fine di fornire una base normativa comune per interazioni elettroniche sicure. Chiamato “eIDAS” (Electronic Identification Authentication and Signature), il regolamento definisce varie tipologie di firme elettroniche, suddividendole in tre categorie: semplice, avanzata e qualificata (“firma digitale” o FEQ).

Quest’ultima è considerata la più attendibile dalle linee guida AGID, poiché risulta a seguito di una procedura informatica, detta validazione, che garantisce l’autenticità, l’integrità e il non ripudio dei documenti informatici. Infine, è necessario puntualizzare che sempre l’eIDAS detta le caratteristiche che ogni firma elettronica deve avere: rispettare gli standard di firma ETSI (European Telecommunications Standards Institute); utilizzare un sistema di verifica dell’identità; avere un sistema per dimostrare che il documento non sia stato modificato dopo essere stato firmato; utilizzare la certificazione elettronica.

Nel caso dell’insorgere di una controversia, un documento informatico firmato con FEQ avrà una forza probatoria limitata (propria di una scrittura privata), e non basterà provarne la provenienza se essa viene contestata; ciononostante, anche il documento digitale può essere autenticato da un pubblico ufficiale: con l’autenticazione assumerà le caratteristiche dell’atto pubblico, facendo piena prova della propria provenienza.

Le applicazioni del “digitale” alla realtà sono illimitate, così come lo sono i benefici, per questo esso è oggetto di uno dei più ambiziosi obiettivi di transizione comunitaria firmato da 27 Stati membri dell’Unione Europea.

L’adozione di massa, seguita da una campagna di formazione del consumatore, porterebbe alla società enormi vantaggi non solo in termini di efficienza, ma soprattutto di costi e sostenibilità, aprendo strade che finora non sono state battute. Questa, come definisce Juan Carlos De Martin, professore di Ingegneria informatica al Politecnico di Torino, è una vera e propria “rivoluzione orizzontale che sta entrando in tutti i comparti produttivi ed è in grado di cambiare la vita delle persone. O meglio, sta cambiando tutto ciò che è possibile trasformare in bit. Perché? Internet è una tecnologia general purpose (come l’elettricità e il vapore) in quanto è utilizzabile in tutti i diversi settori della produzione. È una rivoluzione in grado di cambiare gli stessi esseri umani. Ecco perché”.

Articolo di Armando Cencini

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