I viaggiatori del Vecchio Mondo che hanno conosciuto lo splendore di Chichén Itzá lo sanno bene: la terribile vendetta di Montezuma, solita manifestarsi dopo l’atterraggio in Messico sotto forma di tortura intestinale, colpisce all’incirca un turista su due. Come una ripicca sulla progenie di quei conquistadores che, temerari scopritori d’America o spietati assassini in base ai gusti di noi giudici del XXI secolo, si portarono dietro archibugi e vaiolo. “Armi, acciaio e malattie”, ha scritto l’antropologo Jared Diamond a proposito della tragedia demografica precolombiana consumatasi dal 12 ottobre 1492, quando le prime caravelle attraccarono a San Salvador.
Sua altezza Montezuma II, dalla reggia di Tenochtitlan (la futura Città del Messico), controllava l’immenso impero azteco: una quarantina di province tributarie trasformate nel giro di pochi anni, tra spedizioni e battaglie, nel vicereame di Nuova Spagna. Seguirono Perù, Nuova Granada e da ultimo, a sud del Brasile portoghese, il Rio de la Plata.
Non era un processo di sostituzione culturale, come spesso recita la vulgata polemica, ma l’inizio di un lunghissimo meticciato di cui l’America Latina porta ancora le tracce.
Traballando e perdendo lembi di terra qua e là, le impalcature coloniali iberiche avrebbero retto i contraccolpi della storia fino all’Ottocento. L’indipendenza fu una formalità: erano gli incunaboli un altro colonialismo, quello nascosto degli Stati Uniti. «Intralciati dalla superstizione della democrazia, non si decidono a diventare un impero», avrebbe chiosato dall’Argentina lo scrittore Jorge Luis Borges.
Difficile dargli torto: è un colonialismo che conosciamo pure noi, per certi versi. Spettatori di qualunque moto sociale sorga nell’America a stelle e strisce e pronti a farlo nostro, sudditi per lingua e cultura di un gigante buono che ci consegna a domicilio paradigmi di attivismo come fossero gadget (o forse lo sono?). Se poi questi intersecano la narrazione storica, non finisce mai bene: vengono abbattute le statue, si censura Dostoevskij perché la Russia ha calpestato i vicini ucraini e così via. Fino a Colombo: per qualcuno l’eroe che pose fine all’oscurantismo dei terrapiattisti medievali, per altri un rude suprematista bianco che merita la condanna nei tribunali del presente; in nome di una storia condivisibile, si dice.
La Leyenda Negra su Cristoforo il Sanguinario e la sua combriccola, si potrebbe pensare, sarà frutto del multiculturalismo di oggi.
Il quale, a sua volta, discende dalla novella globalizzazione. Hai voglia: son tutte faccende vecchie come il cucco. Il lato dark della conquista fece fortuna nei Paesi protestanti a cui l’imperialismo spagnolo non andava giù, e tantomeno la sua benedizione da parte del papa. Era infatti un mandato missionario, ovvero l’evangelizzazione degli indios, a legittimare la giurisdizione dei re sulle terre scoperte e le spedizioni “provvidenziali” verso Occidente.
La stessa Brevissima (e famosissima) Relazione della distruzione delle Indie, opera di un frate che pur denunciava abusi e atrocità dei connazionali, non metteva in discussione le ragioni della conquista. Il suo autore, nella dedica, chiedeva solo a Carlo V di riportare la situazione all’ordine di cui era garante in quanto sovrano cattolico. Ma i libri, si sa, come finiscono sotto il torchio della stampa non appartengono più a chi li scrive.
Così la Relazione di Las Casas fu letta all’estero, divenne un best-seller in Francia e Inghilterra e anche un manifesto contro l’iniqua e violenta conquista spagnola. Tant’è che, quando a loro volta si espansero in America, i volponi nordeuropei si guardarono bene dal parlare di “conquista”, servendosi piuttosto di sottili circonlocuzioni fornite dal diritto romano: vaghe terre di patrimonio comune perché vuote ma occupabili, con la forza se necessario, in quanto destinate a uno scopo preciso (sic).
C’è un altro episodio che vale la pena di ricordare.
Proprio all’epoca dei conquistadores si abbozzò un tentativo di sottomettere e convertire il celeste Catai. Follia: appena i cinesi videro appropinquarsi gli ambasciatori lusitani, li fecero secchi senza troppa esitazione. Chi sono lì i barbari vinti? Non eravamo noi, europei ed eterni vincitori, quelli che avendo abusato della propria statura devono chiedere scusa alle periferie del mondo e salvarle dalla loro minorità?
Tanti discorsi storici naïve si basano su una mania controfattuale, in stile sliding-doors: e se gli aztechi avessero scoperto l’Europa? Bisognerebbe aggiungere: e se poi avessero rivelato lo stesso anelito alla brutale sopraffazione? La natura umana è poi quella che è… la commiserazione per i vinti e la certezza circa l’indole mansueta del buon selvaggio sono forse l’eredità razzista peggiore.
Si pensi al modo in cui si è raccontata la fine dell’ultimo superstite di una tribù amazzonica il mese scorso: “l’uomo più solo del mondo”. Il fatto che non sia mai stato intervistato circa il proprio stato emotivo non conta: a noi che siamo padroni del linguaggio spetta sentenziare sulla solitudine altrui, compatire, intuire i risvolti psicologici di una tenera ritualità tribale praticata da sé.
È eurocentrismo pure raccontare il Cinquecento come dialettica America-Europa, dimenticandosi l’Islam che fioriva lungo la via delle spezie, l’isolata grandezza di una Cina ancora proibita e il resto delle placche geopolitiche di allora, nel fascino e negli scempi.
Senza contare che l’Europa non era una, e le civiltà amerindie nemmeno. Se davvero si vuole costruire una memoria globale che sia condivisa e condivisibile, tocca tirare fuori tutto. Anche le storie delle minoranze, anche le ombre che si proiettano dietro alle statue. I valori di allora, la piega diversa che oggi scegliamo di prendere nei rapporti con l’altro, i tanti protagonisti di una storia polifonica, mai riducibile a uno schema di buoni e cattivi, mai gioco di imputazioni a posteriori.
È l’ignoranza del contesto che deriva dalla cancellazione e dalle manipolazioni a essere pericolosa. Al contrario, solo elaborando con sincerità e distacco ogni trascorso potremo rendere giustizia al nostro groviglio umano nato meticcio, tanto contraddittorio quanto barocco e politicamente (per fortuna) scorrettissimo. In una parola, come disse tempo fa una vedetta scorgendo qualcosa oltre le Colonne d’Ercole: a te, Tierra!