Non era così che doveva andare. Certo, Luiz Ignazio Lula da Silva ha ottenuto la maggioranza dei voti, al primo turno delle elezioni presidenziali brasiliane, tenutosi domenica scorsa. Ma comunque troppe poche preferenze per battere immediatamente il suo sfidante, il presidente in carica Jair Bolsonaro, e con un margine più stretto del previsto: 48% contro 43% dei voti. Considerando che i sondaggi precedenti alla tornata elettorale davano Lula in testa con uno scarto del 10-15%, Bolsonaro ha saputo raggruppare più sostenitori del previsto.
Ora, secondo il sistema elettorale del Brasile, bisognerà attendere il secondo turno delle presidenziali il 30 ottobre, per conoscere il vincitore definitivo di questa sfida.
Sarebbe bello se questo evento fosse un fatto esclusivamente interno al Brasile, ma purtroppo non è così. Il risultato di questa elezione sarà un tassello importante per definire il nostro futuro di abitanti del pianeta Terra, poiché anche su questo scacchiere si gioca la tenuta ecologica del nostro mondo. Uno dei due contendenti alle presidenziali brasiliane ha infatti la sfortuna (per noi) di chiamarsi Bolsonaro e di aver dietro di sé una lunga storia di deliberati attacchi alla scienza e all’ecologia, in primis contro la foresta amazzonica, il polmone verde non solo del Brasile ma di tutto il pianeta.
Nei primi sei mesi del 2022, quasi 4.000 chilometri quadrati di foresta pluviale sono stati deforestati, e attualmente circa il 17-20% dell’Amazzonia originale è andato perduto. Gli scienziati stimano che il punto di non ritorno sarà al pericolosamente vicino 25% della deforestazione, e già parti del bacino amazzonico producono più anidride carbonica di quanta una selva in sofferenza riesca poi a riassorbire. Certo, questa allarmante situazione è il frutto di 50 anni di deforestazione, ma la presidenza Bolsonaro, in carica dal gennaio del 2019, ha attivamente peggiorato le cose.
L’elezione di Bolsonaro è stata salutata dallo scoppio di oltre 60.500 incendi (il doppio dell’anno precedente) che hanno devastato ampie aree della foresta.
In tutta risposta, il presidente ha rifiutato gli aiuti da 20 miliardi di dollari offerti dal G7 per far fronte alla catastrofe ecologica, indicandoli come una volontà di controllare lo stato brasiliano da parte delle potenze straniere. Tutta questa trita retorica serve solo a mascherare neanche troppo velatamente il fatto che questi incendi deforestanti sono stati manna dal cielo per le aziende produttrici di soia e per gli allevamenti di manzo, attività avide di terra e molto inquinanti, ma anche estremamente redditizie e con forti interessi legati alla politica. Nel 2020, il fatturato congiunto di queste due attività per l’export era di oltre 35 miliardi di dollari, e al mercato della carne brasiliana è fortemente legato l’andamento del Real, la valuta nazionale.
L’Amazzonia orientale è stata recentemente oggetto delle attenzioni minerarie cinesi, interessate a sfruttare i suoi giacimenti di ferro, rame e nichel. È abbastanza chiaro come quindi Bolsonaro, per interesse proprio e delle sue lobby conservatrici, abbia nei fatti dato il via libera ad un capitalismo predatorio nei confronti dell’Amazzonia, ottenendo come risultato nel 2021 il tasso di deforestazione più alto degli ultimi quindici anni. Infischiandone, va da sé, sia dell’effetto catastrofico sul clima e sulla biodiversità globale (l’Amazonia ospita circa tre milioni di specie e un terzo degli alberi tropicali del pianeta), sia dei diritti delle popolazioni indigene: solo nel 2021, ci sono stati ben 305 casi di occupazione illegale di territorio nativo.
Quanto promesso dal presidente finora (invio dell’esercito a pattugliare la foresta, debellamento della deforestazione illegale entro il 2030 e multe più salate ai trasgressori) in pratica è servito a poco: nel 2022 gli incendi amazzonici finora sono stati oltre 75 mila, più che in tutto il 2021. Bolsonaro si muove, come suo solito, su due binari: blandisce l’indignazione internazionale con vaghe promesse, e poi in patria opera provvedimenti come il taglio dei finanziamenti alle agenzie per l’ambiente (nel 2021 ridotte con un budget al minimo ventennale) e la proposta di leggi come la 2633/2020, che consentirebbe sostanziale impunità a chi si appropria illegalmente dei territori amazonici deforestandoli.
Se Lula dovesse vincere le elezioni, le prospettive in questo senso potrebbero essere più rosee: già durante la sua presidenza, dal 2003 al 2011 e non priva di aspetti critici, almeno l’impegno alla protezione ambientale è stato abbastanza curato e sincero.
Nel 2003, con l’aiuto della sua ministra per l’ambiente, Marina Silva, il presidente Lula ha organizzato un Piano d’Azione per la Prevenzione e il Controllo della Deforestazione dell’Amazzonia Legale, la cui implementazione ha portato a dimezzare i tassi di deforestazione tra il 2004 e il 2007. Inoltre, misure incisive come l’inserimento in una lista nera delle municipalità più responsabili della deforestazione e il più stretto controllo dei proprietari terrieri hanno permesso sotto la presidenza Lula una riduzione del tasso di deforestazione del 75% rispetto alla media annua nel periodo 1996-2005.
Lo stesso Lula, nella attuale campagna elettorale, ha dichiarato di volersi avvalere dell’aiuto internazionale dell’Unione Europea per preservare la biodiversità amazonica. Se dovesse esserci effettivamente un cambio della guardia ai vertici brasiliani, si può quindi sperare quantomeno nell’arginamento della catastrofe ecologica in atto in Amazzonia, foss’anche solo per distinguere il nuovo governo dalle gravi responsabilità del precedente.
Ma nulla è ancora deciso. La destra brasiliana è più resiliente di quanto si credeva, muove interessi economici potenti e non si fa più scrupolo, ormai, di diffondere disinformazione antiscientifica ai quattro venti: si è visto con la pandemia di Covid-19. Gli stessi elettori brasiliani, soprattutto quelli a nord del Paese, dove ha sede la foresta amazzonica e dove gli stati federati sono in media più poveri, potrebbero cedere al miraggio di una deregulation ambientale portatrice, va detto, di immediati posti di lavoro, senza curarsi troppo dell’impatto che questo avrà sul benessere del mondo intero.
Bolsonaro poi, sparando a zero, come suo solito senza prove, contro il sistema elettronico di voto, in caso di sua sconfitta ha allungato su Brasilia gli spettri dell’assalto trumpiano al Campidoglio di Washington DC, ipotesi molto pericolosa anche perché il Brasile ha una democrazia storicamente meno salda e tranquilla di quella statunitense. Dalle scelte che la democrazia brasiliana farà e dalla sua tenuta dipenderà il futuro del maggiore produttore di ossigeno del pianeta, del suo più grande hub di biodiversità, della sola casa di popolazioni indigene millenarie. Boa sorte.