Del: 21 Ottobre 2022 Di: Giulia Perelli Commenti: 0
Il grande dilemma Shein. L’indagine Channel4 risolverà le controversie?

Prodotti a partire da 1,99 euro. Svendita a tempo limitato. Un orologio che scandisce il tempo che scorre, ad ogni secondo un’occasione in meno per aggiudicarsi un top all’ultimo grido. A 3,99 euro. «Compra, veloce! Non fartelo scappare» sembra gridare la piattaforma da ogni lato della schermata.       Puoi sempre rendere il capo entro 45 giorni. Se per errore dovessi cedere alla tentazione, giornate intere trascorrerebbero tra scrolling infiniti. 

Tra le problematiche che sono emerse nel corso dell’indagine di Channel4 – anche se già in passato l’attenzione su questo aspetto era comparsa – c’è quella che riguarda l’enorme numero di nuovi capi, giornalmente proposti. Esiste, all’interno del sito, una sezione dedicata – con tanto di filtro per data – intitolata «nuovi giornalieri», il cui sottotitolo reca queste parole: «Dato che ogni giorno è diverso, vale la pena mostrare nuova figura al giorno. Né ripetere il giorno primo né rompere la linea, SHEIN è dedicato a offrire i migliori articoli per donne che desiderano rinnovare tutti i giorni»

Al di là dell’italiano stentato con cui viene trasmesso il messaggio – che pare interessare poco, dal momento che molti dei testi presenti sulla pagina sono frutto di una traduzione «peculiare» – il messaggio che emerge è la rappresentazione più chiara della politica che traina il colosso della fast fashion: comprare, come parola d’ordine, d’impulso, senza la certezza di poter o voler indossare il capo. Possedere un numero di capi tale da poter permettere ai consumatori di sfoggiare un nuovo outfit ogni giorno. E, per poter «rinnovare ogni giorno», il miglior articolo è quello che ha un prezzo irrisorio, di cui ci si può dimenticare dopo un solo utilizzo, senza rimorsi

Questa premessa è fondamentale per comprendere i punti critici del modello produttivo di Shein. 

L’azienda nasce nel 2008 per opera di Chris Xu, esperto in massimizzazione delle visualizzazioni dei siti internet. La sede principale e originaria è Nanchino: qui inizia la storia della più potente azienda di e-commerce della moda. L’azienda acquistava gli articoli dal mercato all’ingrosso di Guangzhou, fulcro della produzione tessile cinese, vendendoli direttamente ai suoi clienti tramite il sito internet. 

Dal 2012 inizia anche la sua carriera social, collaborando con varie piattaforme e influencer per la promozione del brand. Dal 2016 Shein stessa inizia a produrre abiti sotto il proprio marchio, ingaggiando 800 designer e stilisti. Dal 2017 il fenomeno Shein diventa virale. I dati rivelano che il valore dell’azienda, nel 2021, era di 30 miliardi di dollari; nel 2020 il fatturato ammontava a 10 miliardi, facendo ottenere alla piattaforma di e-commerce il primo posto a livello globale. 

La strategia utilizzata da Chris Xu si fonda su due punti fondamentali: eliminare gli intermediari e utilizzare i social come principale strumento di marketing. 

Proprio rispetto a quest’ultimo aspetto è interessante notare che l’impronta di «fast fashion», lo schema operativo, insomma, si riflette anche nelle scelte pubblicitarie: il brand usufruisce di micro-influencer, il cui costo a prestazione è minimo, se non nullo, e viene saldato con il mero invio di items gratuiti.

Inoltre, i prezzi bassissimi attirano clienti perlopiù molto giovani, con budget ridotti e meno esperienza nel valutare la reale necessità dei propri acquisti. Shein è il perfetto predatore per questa categoria – giovani utilizzatori di social, aka la gran parte dei giovani nel mondo. I design sono studiati secondo le tendenze che emergono dai social stessi, verificando l’interesse dei clienti e producendo inizialmente piccoli lotti (100 articoli), con un ricambio continuo dei modelli presentati. 

Infine, la piattaforma interagisce, o meglio interferisce, costantemente con il cliente: cattura l’attenzione e porta lo user a scorrere compulsivamente la pagina di presentazione dei prodotti. Utilizza banner colorati per indirizzare il cliente su «magnifiche offerte» (che spesso contengono i leftover di questa produzione massiva) e conti alla rovescia per poter approfittare degli ultimi pezzi, di sconti incredibili, ecc. Il sistema funziona: nel 2021 il numero di download dell’app di Shein ha superato quello di Amazon.

Shein non è solo un esperimento ben riuscito di marketing e una potenza mondiale nell’e-commerce. È anche un crogiolo di controversie. 

E a ben vedere non potremmo aspettarci altro, da momento che straccia qualsiasi concorrenza, anche di altri marchi di fast fashion, con prezzi assurdamente bassi e un numero di prodotti esagerato. Nel corso degli anni sono sorti diversi contrasti: sui marchi in quanto il brand è spesso stato accusato di imitare modelli costosi, di alta moda, o anche piccoli produttori, sfruttando la loro buona reputazione e fama (per esempio il caso Levi Strauss & Co. v. Shein nel 2018, risolto in via extragiudiziale); ma anche controversie relative alla violazione dei dati e alla diffusione di immagini offensive (nel 2020 era stata rinvenuta sul sito una collana con una svastica). 

Oggi, però, sono emersi ulteriori, gravi, elementi rispetto a violazioni dei diritti umani dei lavoratori degli stabilimenti dell’azienda. Channel 4, una rete televisiva britannica, ha sponsorizzato l’inchiesta della giornalista Iman Amrani «Untold: Inside the Shein Machine», che tramite l’infiltrazione all’interno delle fabbriche di Guangzhou ha mostrato le reali – e disumane – condizioni dei lavoratori. 

Questa è, forse, la polemica più delicata: è emerso (da questa e da numerose precedenti indagini) che la maggioranza degli impiegati non ha un salario minimo e riceve 4 centesimi per ogni capo prodotto. I «fortunati» hanno uno stipendio base garantito di 550 euro al mese, con una clausola che prevede una produzione minima di 500 capi al giorno; tale misera paga viene tuttavia trattenuta per il primo mese. Non solo, ad ogni errore commesso alle sarte vengono detratti i 2/3 della paga giornaliera

Se questi dati non fossero sufficientemente disturbanti, si aggiunga che i turni contano normalmente 18 ore consecutive di lavoro ogni giorno, portando a 27,78 la media oraria di capi da produrre per ottenere lo stipendio base, con un solo giorno al mese libero.

In questa ultima indagine sono inoltre state portate all’attenzione del pubblico le carenti condizioni di sicurezza degli stabilimenti produttivi e sono state diffuse le immagini di alcune dipendenti intente a lavarsi i capelli durante la – brevissima, neanche a dirlo – pausa pranzo, conseguenza di una totale mancanza di tempo libero dovuta ai turni estenuanti. 

Si può concludere, semplicemente, che il business model di Shein sia lo sfruttamento. Di esseri umani. Di risorse. Dei suoi clienti. Degli altri marchi. Ora la questione è la seguente: perché, dopo così tante indagini, consci di tutte le notizie di violazioni di diritti umani (e non solo) che aleggiano attorno a questa azienda, consapevoli che nessun prodotto possa essere così tanto conveniente se non derivasse da una fabbricazione problematica, perché continuiamo a rifornirci presso Shein? Per vanità. Perché soddisfare le proprie voglie, sempre più smodate, è una pulsione troppo forte. Perché, per quanto moralisti, non siamo più sufficientemente morali.

Giulia Perelli
Vivo di viaggi, di libri e di esperienze. Scrivo di tutto quello che vedo e sono un moto perpetuo. Sono una studentessa di giurisprudenza e di tutto quello che mi capita di voler imparare. Sono l’artista meno artista di sempre. Nella vita devo solo poter raccontare, parlare e fotografare.

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