Del: 3 Ottobre 2022 Di: Giulia Scolari Commenti: 0
Il meta-patriarcato in Don’t worry darling

Dopo l’esordio alla Mostra del Cinema di Venezia, Don’t Worry Darling è stato al centro di svariate discussioni sui social. Uscito nei cinema italiani lo scorso 22 settembre, ha fatto record da botteghino come previsto nonostante la critica non l’abbia considerato promettente.

La trama del film vede Alice (Florence Pugh) e Jack (Harry Styles) Chambers trasferirsi in una sorta di “oasi” lontana dai pericoli e dai fastidi del mondo reale: un mondo a parte dove, guidati dall’inquietante guru Frank (Chris Pine), diverse coppie possono godere di un’esperienza di vita senza rischi, in cui tutto è sotto controllo. Quello che avviene a Victory (questo il nome del paradiso su terra) è solo l’inizio di una rivoluzione che deve portare l’umanità intera ad evolversi. Questo sembrerebbe già abbastanza inquietante di per sé, invece è solo l’inizio. Le prime falle del sistema cominciano a svelarsi quando Margaret (Kiki Layne), una delle amiche più strette di Alice, sembra impazzire e viene ostracizzata e derisa. Da qui comincerà l’indagine della protagonista, che dovrà fare i conti in prima persona con una collettività che la convince di essere pazza. 

L’intrigata trama ricca di colpi di scena è forse troppo pretenziosa: diversi dettagli sono introdotti per poi rimanere di fatto senza spiegazione, molte delle allucinazioni che appaiono ad Alice non hanno un senso e il finale è sbrigativo e incompleto.

La regia è evidentemente poco matura: è quasi fastidiosa l’attenzione su alcuni dettagli se contrapposta alla totale mancanza di cura per parti importanti della trama o dello sviluppo dei personaggi; i riferimenti ad opere di fantascienza e a pietre miliari del cinema sono così evidenti da risultare più brutte copie che non omaggi. Nonostante la gran parte dei critici abbia concentrato il proprio disappunto sulla recitazione, gli attori non sembrano essere un problema: anzi, la loro interpretazione è spesso di alto livello. Spiccano indubbiamente Olivia Wilde, Chris Pine e Florence Pugh; Harry Styles, tanto criticato, non è un attore degno di nota, ma il suo personaggio non necessita di un’interpretazione particolare.

Il grave errore di questo film è stato più che altro rendere centrali, forzandole addirittura, delle metafore già di per sé evidenti, banali e superficiali, a discapito di quella sulla quale si regge l’intera narrazione. Durante tutta la proiezione, le scene di vita di Alice a Victory sono accompagnate da una colonna sonora disturbante, fastidiosa, che rende difficili da percepire i dialoghi e offusca la comprensione delle vicende. Sicuramente, pur avendoci troppo “calcato la mano”, l’espediente della regia vuole servire a rappresentare la difficoltà di pensare chiaramente in un ambiente che vuole ovattare la mente e omologare i personaggi: Alice, infatti, si mantiene (inconsciamente) sana canticchiando sovrappensiero sempre lo stesso motivetto: “With you all the time… Can’t you see… I long to be… With you all the time”.

Attenzione particolare è data anche ai costumi e alle ambientazioni: pur essendo di fatto una realtà atemporale, Victory è una perfetta ricostruzione degli anni ’50.

La costumista Arianne Phillips, già nominata a premi illustri come BAFTA e Tony e vincitrice del premio Campari Passion a Venezia, ha dichiarato di aver utilizzato diversi pezzi vintage originali, eventualmente modificati su misura. I costumi, le acconciature, gli arredamenti, persino i ruoli sociali sono quelli degli anni ’50: gli uomini vanno al lavoro, le donne stanno a casa a pulire e cucinare. È chiaro il rimando alle ipocrisie di un’età che per molti anni ci si è ostinati a presentare come perfetta ignorandone le ombre.

Sebbene tutti questi riferimenti siano interessanti, mancano di originalità: non è questo che ci si ricorda quando si esce dal cinema, nessuno di questi argomenti è stato trattato con profondità né men che meno con una prospettiva interessante. Ciò che lascia lo spettatore a bocca aperta è la rivelazione che avviene negli ultimi minuti: ormai da tempo si è capito che Victory non è altro che una finzione, che Frank ha creato su misura (e con pochissima voglia di impegnarsi, tra l’altro) i ricordi e le storie di ognuna delle coppie presenti, eppure l’ultimo pezzo del puzzle sorprende.

Per tutto il film, infatti, lo spettatore è portato a commettere l’errore di pensare che Alice debba scegliere se restare o abbandonare Victory: non è questo il dramma dell’eroina, per lei lasciare Victory non ha alcuna importanza, il contesto non ha nessun peso per lei. Il dramma di Alice è Jack: è di lui che comincia a dubitare, è lui che deve scegliere se lasciare o meno, è lui che gestisce tutto fin dall’inizio. Jack che sembra il marito perfetto (è pur sempre Harry Styles), che alza la voce solo per farle capire che tutto ciò che fa lo fa per lei e che ogni giorno millanta sacrifici intangibili che sembrano avere come solo fine quello di renderlo il burattino preferito di Frank.

Dopo un’eccessiva concentrazione sulla routine della vita a Victory e l’inizio delle scoperte di Alice, infatti, il film si decide a svelare il segreto sotto la messinscena: l’oasi non è altro che un metaverso cui si accede tramite degli strumenti a dir poco inquietanti che si attaccano agli occhi e fungono da “proiettori”.

Alice e Jack sono persone comuni che hanno sempre vissuto nel mondo contemporaneo: sono una coppia infelice, lui ha da poco perso il lavoro e con esso la sua identità. Dopo aver maturato il terrore di perdere anche Alice, Jack comincia ad entrare in contatto con comunità di “uomini spezzati” come lui, che si fanno forza a vicenda guidati dalle parole motivanti di Frank su quanto sia semplice diventare gli uomini che loro sanno di poter essere.

Frank – interpretato magistralmente da Chris Pine – offre a questi uomini spenti un nuovo mondo in cui possono mostrarsi come si vedono, come vorrebbero essere visti. Con lo sguardo magnetico che ha reso l’attore uno dei gioielli delle romcoms, Frank è un uomo affascinante quanto misterioso, criptico e carismatico: tutti vogliono essere non solo suoi seguaci, ma suoi amici. Lui promette loro un mondo in cui possono finalmente vivere la vita che hanno sempre voluto con le loro consorti, che volenti o nolenti si ritrovano in questa simulazione.

Questa scoperta e ciò che ne consegue non coprono che gli ultimi minuti del film, nonostante ne rappresentino la parte più originale e degna di nota. Il personaggio di Jack acquista importanza proprio quando si svela che non è il marito da sogno, bensì un tipo di uomo che è sempre più diffuso e pericoloso. In un’epoca in cui l’identità degli uomini rimane ancorata a tradizionali manifestazioni di mascolinità (dover procurare sostentamenti e stabilità economica, non aver bisogno di aiuto e non potersi permettere ricadute…), mentre le donne sono sempre più impegnate ed emancipate, si crea una nuova forma di conflitto fra i sessi.

Le comunità di uomini che, come Jack, sentono di non avere più dignità o non sono mai riusciti ad inserirsi socialmente e aprono forum disturbanti in cui organizzano attacchi alle donne o si scambiano consigli su come controllarle (o punirle, evitarle, raggirarle, a seconda dei casi) sono sempre più diffusi.

I cosiddetti incel, ovvero uomini “involontariamente celibi”, che credono di aver diritto per natura ad avere rapporti con il sesso opposto, ma ne vengono privati solo perché non reputati abbastanza attraenti, sono oggi impossibili da quantificare (dalle migliaia alle centinaia di migliaia). Secondo alcuni studi, oltre 50 femminicidi degli ultimi sei anni in Nord America sarebbero da attribuire a questi gruppi. Le loro comunità sorgono soprattutto online, in social dove la moderazione è minima (esempio lampante, Reddit): sono solitamente bianchi, eterosessuali, con poca o totalmente assente esperienza con l’altro sesso e molto spesso instabili dal punto di vista della sanità mentale.

Seppur in pochi minuti e decisamente in maniera sbrigativa, questo film mostra una realtà distopica che però così distopica non è: se la lotta per l’uguaglianza non si combatte più solo nel mondo reale, quanti altri strumenti possono essere usati contro le donne?

Le discussioni riguardanti la situazione della donna nell’epoca digitale sono nate con la nascita del web: già dai primi anni Ottanta è nato il cosiddetto Cyborg Feminism.

Studiose come Donna Haraway si sono interrogate sulle opportunità che il mondo digitale poteva offrire in termini di emancipazione, ma anche su come il patriarcato si protragga anche laddove non c’è un corpo sul quale avere il controllo. Se dapprima vi era entusiasmo pensando che finalmente in una realtà mediata si potessero lasciare andare gli stereotipi e le disuguaglianze (e di conseguenza ciò si potrebbe riflettere nella realtà materiale), sono bastati pochi anni perché i sondaggi mostrassero la netta minoranza di donne nel campo dell’informatica e la loro esclusione dall’ambiente. I social sono diventati luoghi in cui portare avanti istanze ed unirsi, ma anche luoghi in cui le donne sono maggiormente censurate e insultate, di fatto non sono che un’appendice della società materiale.

In questi ultimi anni l’innovazione digitale presenta come nuova frontiera il concetto di metaverso, una sorta di vita parallela digitalizzata. Questa realtà viene già utilizzata in ambienti come la moda, dove è possibile mostrare collezioni e sfilate senza realizzare prototipazioni poco ecologiche. Anche nel femminismo si è cominciato a parlare di un’opportunità per le donne, sia in termini lavorativi che in termini sociali.

Eppure, seppur il metaverso ad oggi abbia vita breve, sono già stati registrati casi di “violenze virtuali”. Esattamente come nel mondo reale, certe situazioni di svantaggio possono però essere accettate e rivendicate anche dalle donne stesse, soprattutto quando si prospettano come contesti in cui il guadagno personale è alto e non conviene cercare di cambiare, rischiando di perdere tutto. Un personaggio emblematico di questa dualità è Bunny (Olivia Wilde). Fervente difenditrice di Frank e protettrice di Victory fino alla fine, Bunny ha sempre saputo la realtà ma sfrutta l’opportunità per avere ciò che il mondo reale le ha tolto: i suoi due bambini.

Ha dimostrato di avere gli occhi ben aperti Olivia Wilde, mostrando una realtà di cui si parla ancora troppo poco, in chiave fantascientifica. Lascia gli spettatori con un’inquietudine attuale, distopica al punto giusto: se in un altro universo sarà possibile sceglierci a piacere, saremo in grado di non ricadere nel conflitto e nell’oppressione? Nemmeno in un altro universo le donne saranno uguali agli uomini?

Vale la pena guardare Don’t worry darling come ogni altro film che lasci a bocca aperta e con domande senza risposta. Sicuramente ha tanti difetti, è un ambizioso esordio, ma sarà difficile farlo cadere nel dimenticatoio.

Giulia Scolari
Scienziata delle merendine, chi ha detto che la matematica non è un’opinione non mi ha mai conosciuta. Scrivo di quello che mi piace perché resti così e di quello che odio sperando che cambi.

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