A giudicare dalle fotografie, a Sharm-El-Sheik deve fare caldo. Non che questo fatto sia una novità: secondo rilevamenti della NASA, gli ultimi otto anni hanno avuto le temperature più alte mai registrate, con un riscaldamento globale di 1.1°C rispetto ai livelli preindustriali, pericolosamente vicino al limite massimo di 1.5°C deciso durante la COP21 di Parigi, nel 2015.
Ora, i leader mondiali riuniti in Egitto sotto l’egida dell’ONU per la COP27 si sono posti, almeno formalmente, l’obiettivo di limitare i danni climatici e ambientali già ingenti che caratterizzano l’antropocene.
Ma quanto, e cosa, possiamo aspettarci da questo summit? Secondo l’opinione degli analisti internazionali, purtroppo al più soltanto risultati parziali. Fiona Harvey, del quotidiano britannico The Guardian, ha stilato in particolare una serie di punti chiave della COP27, indicandone anche la probabilità di risoluzione. Da questa relazione, si evince innanzitutto che l’idea di limitare il riscaldamento globale a 1.5°C, come ribadito anche durante la COP26 di Glasgow l’anno scorso, rappresenta purtroppo una chimera irraggiungibile: attualmente, siamo lanciati a pieno ritmo verso un innalzamento delle temperature pari a 2.5°C, e la volontà politica globale di imporre provvedimenti drastici di contenimento delle emissioni è zoppicante a dir poco.
Nessuno tra gli Stati maggiormente sviluppati (e quindi più inquinanti) al mondo ha attualmente economie compatibili con la soglia prevista di +1.5°C, e solo 24 Paesi hanno presentato emendamenti ai loro piani di transizione ecologica, peraltro con una stima di riduzione del riscaldamento globale derivante da tali provvedimenti pari solo a -0.1°C. Alcuni potenze economiche di media portata, come il Messico del presidente Andrés Obrador, potrebbero usare la COP27 come occasione per presentare al mondo progetti irrealistici o al di fuori della propria portata, per poi tornare a finanziare uno sviluppo basato sullo sfruttamento delle risorse fossili lontano dai riflettori.
Inoltre, per alcuni Stati emergenti l’idea di limitare lo sfruttamento delle risorse fossili da parte della propria economia rappresenta un’oscenità, partorita da un mondo occidentale arricchitosi sfruttando le risorse altrui e che ora vorrebbe tarpare le ali a chi vuole intraprendere la stessa strada del benessere. Per contro, le nazioni insulari del Pacifico, che a causa del cambiamento climatico rischiano di essere letteralmente sommerse, si sono espresse a favore di misure rapide e incisive per la limitazione delle emissioni: il primo ministro di Tuvalu, Kausea Natano, ha richiesto un trattato internazionale di non-proliferazione dei combustibili fossili. Difficile far coincidere le due istanze, a cui si aggiunge un altro problema: chi pagherà per la transizione ecologica dell’economia globale?
Il conto è salato: secondo il rapporto dell’economista Nicholas Stern, ai Paesi in via di sviluppo serviranno circa 2 trilioni di dollari all’anno entro il 2030 per rendere sostenibili le loro economie.
La premier delle Barbados Mia Mottley ha giustamente chiesto che i Paesi più sviluppati e storicamente più inquinanti si prendano le loro responsabilità di fronte a una crisi che mette a rischio le nazioni più povere perché più a lungo sfruttate. Viene però da chiedersi quali governi occidentali decideranno volontariamente di pagare anche per gli altri e così tanto, soprattutto in un periodo in cui lo spettro della recessione e dei prezzi energetici impazziti scuote i mercati.
Già, perché ovviamente c’è da tirare in ballo anche lei, l’”elefante nella stanza”, la Russia di Putin. Grande assente alla COP27, la Federazione Russa è uno dei peggiori inquinatori del pianeta, nonché la protagonista di una guerra in cui si è macchiata di atti evidenti di terrorismo energetico e ambientale nei confronti dell’Ucraina, attaccandone le infrastrutture più basilari per fiaccare il morale della popolazione. Isolata dalla comunità internazionale, la Russia ha anche dovuto abbassare ulteriormente gli standard qualitativi (e di sostenibilità ambientale) di molti comparti industriali (come quello dell’aeronautica civile o dell’automobile) che dipendevano fortemente dall’Europa ma che ora sono stati tagliati fuori per via delle sanzioni.
È evidente che il regime putiniano abbia adesso come priorità il mantenimento del consenso in patria e l’evitare sul campo di battaglia debacle peggiori di quelle già subite nel corso della vergognosa guerra portata da Putin sul suolo ucraino, che già per Mosca rappresenta un mezzo fallimento. L’amara verità è che alla Russia odierna di giustizia climatica non importa nulla, per cui eventi come la COP27 sono dal punto di vista di Putin privi di senso.
Altro Paese nel “club degli irrecuperabili” in fatto di sostenibilità? La Repubblica Islamica d’Iran, stato che il proprio futuro, più che coltivarlo, lo reprime da sempre a manganellate.
Tutto male quel che non inizia bene, quindi? In realtà, no. Progressi veri sono stati fatti, come nel caso dei fondi stanziati dai Paesi più sviluppati per far fronte ai sempre più frequenti fenomeni climatici estremi, che colpiscono spesso aree dall’economia fragile e incapaci quindi di organizzare mastodontiche operazioni di ricostruzione. L’Austria già ha stanziato 50 milioni di dollari per lo scopo, la Nuova Zelanda 20 milioni. Al di là delle cifre, si apre un precedente importante per una risposta veramente globale contro i danni inferti dal cambiamento climatico, danni di cui i gas serra emessi in un altro Paese sono corresponsabili e che quindi vanno gestiti su scala mondiale.
Anche la Cina ha pubblicamente aperto le porte a un dialogo multilaterale in tema di emergenza climatica, strategia non nuova per la diplomazia di Beijing (da sempre mirante a un maggior peso internazionale a scapito degli USA e dei loro alleati), ma anche sintomo positivo che per la seconda economia globale la green economy sia un discorso, e un investimento, serio. La stessa amministrazione degli Stati Uniti d’America tramite le parole dell’inviato John Kerry ha riferito di aver varato un piano che, almeno sulla carta, dovrebbe garantire fondi a investimenti in settori ecosostenibili in Paesi in via di sviluppo. Anche se permangono dubbi circa quello che potrebbe essere visto, non proprio a torto, come il tentativo di svicolare dai pesanti debiti che la macchina economica americana ha contratto con il mondo in fatto di effetto serra (debiti che gli USA sotto varie amministrazioni, come quella di Donald Trump, hanno più volte riferito di non voler pagare), va detto che in Cile e in Nigeria vi sono già progetti interessa(n)ti che potrebbero in questo modo beneficiare di un buon canale d’accesso alla valuta pregiata per eccellenza.
Infine, la volontà di quantomeno discutere una riforma della Banca Mondiale permette di portare sul tavolo i problemi e le iniquità dell’attuale capitalismo globalizzato, e potrebbe essere un buon inizio per un ridisegnamento più equo del suo funzionamento.
Il problema è che difficilmente il summit della COP27 permetterà di trovare risposte a breve applicabili su scala globale, né ci si può affidare a un incontro del genere per imporre agli stati più inquinanti misure di taglio delle emissioni anche impopolari. L’azione deleteria poi che la Russia sta portando avanti con la sua guerra di invasione in Ucraina è fattore di pesante incertezza per il mercato dell’energia, e quindi per l’ambiente, e si ha ragione a temere che, alla fine, i governi europei (attori di massima importanza per il contrasto alle emissioni) decidano di non aggiungere i costi della integrale transizione ecologica sulle spalle delle famiglie già gravate dalle bollette lievitate, foss’anche solo per non perdere consenso.
Che ci piaccia o no, il destino della nostra società sarà deciso negli stessi anni in cui il mondo, contemporaneamente, deve battersi contro una pandemia e contro le ambizioni imperialiste di un autocrate sanguinario. Alle nostre popolazioni serviranno nervi d’acciaio, grande lucidità e buona volontà da vendere per non cadere preda della demagogia di chi promette soluzioni facili a problemi difficili, demagogia che alla lunga serve solo a perdere tempo prezioso. Perché mentre i leader della Terra discutono in Egitto, l’orologio climatico corre veloce verso i +2.5°C. O meglio, verso i 2 minuti alla mezzanotte.