Del: 21 Novembre 2022 Di: Alessandra Pogliani Commenti: 0
Radici. La riforma agraria del 1950

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.


C’è un tipo di narrazione, storica e non, che tutti usiamo. Funziona per poli oppositivi, e ha una versatilità di applicazione tale che Eraclito, quando diceva che il conflitto è padre di ogni cosa e non esiste nulla senza un contrario, a quanto pare aveva i suoi buoni motivi. Noi e loro, centro e periferia, Nord e Sud… Da ultimo, ma non per ordine assiologico nella storia del nostro stivale, città e campagna.        

L’Italia è sempre stata un paese agricolo. Si potrebbe scriverne una biografia solo tratteggiandone rilievi e piane a coltura, come i pittori quando cercano l’anima nel nudo di una modella in posa. Lo ha fatto Emilio Sereni in una mastodontica monografia (Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961).

Anche dopo il passaggio alla repubblica, agli sgoccioli degli anni ’40 le campagne rimanevano enormi chiazze di identità e sofferenza sul tessuto epiteliale tricolore.

E non solo quelle nel Mezzogiorno, è bene ricordarlo. Di terre brutali scriveva al tempo anche Cesare Pavese. Paesi tuoi, Storia di Berto, Topo di città, e Talino, sorcio di campagna nordica, racconta la violenza assurda che si consuma a Monticello, «un paese di scarto che di notte non passano i treni» ma dove ogni collina è mammella. E la terra, madre nel più inclusivo dei sensi, è gravida di un simbolismo in cui è inevitabile riconoscersi tutti – anche noi ratti urbani.

La Democrazia Cristiana di De Gasperi, che aveva vinto le elezioni del 1948, non poteva certo ignorare il contado, in un momento in cui le riforme erano al centro del dibattito pubblico. Gli anni dal 1944 in poi avevano visto un ciclo di lotte di inedita intensità. In parallelo agli scioperi dei braccianti settentrionali, gli agricoltori del sud avevano iniziato a occupare quegli appezzamenti di terra che, pur spettando loro per diritto (in molti gridavano a memoria l’articolo 42 della Costituzione), si concentravano ancora nelle mani di pochissimi. Oltre a essere gestiti con incuria: come emergeva dai cahiers de doléance compilati su invito di un’assemblea comunista in Calabria, acquedotti e igiene erano una rarità.

L’offensiva contadina non conobbe solo momenti tragici come la strage di Melissa (1949), quando la polizia aprì il fuoco sugli occupanti e tre persone caddero sul fondo Fragalà. Colpisce anche lo spirito di questi fermenti, che tra le fila contavano donne e ragazzini. Il coagulo di fatalismo e individualismo tipico di quel mondo stava lasciando il posto a una nuova solidarietà, in cui il vicinato e la famiglia diventavano vettori di aggregazione in nome di un’utopia egualitaria, un po’ comunista e un po’ religiosa insieme. Non mancarono le tensioni interne, ma la prova di coraggio e ostinazione bastò a convincere De Gasperi. Al congresso nazionale si pronunciò senza mezzi termini:

« Bisogna che si arrivi a un’altra perequazione, a un altro sistema della proprietà fondiaria che si basi sulla giustizia sociale. »

Le tre leggi di riforma agraria (la legge Sila per la Calabria, la “legge stralcio” per gli altri territori e quella siciliana) furono approvate non senza difficoltà nel 1950. Le parole d’ordine erano due: confiscare e ridistribuire i poderi che superassero i 300 ettari e quelli non soggetti a lavori di miglioria. In totale furono espropriati circa 700.000 ettari di terreno, da spartire tra le famiglie che ne avessero fatto richiesta: dopo il pagamento di un piccolo affitto per 30 anni, i contadini ne sarebbero divenuti proprietari a tutti gli effetti.

Nonostante il cospicuo indennizzo garantito loro dal Tesoro, il baronaggio fece resistenza: chi spezzettò il giardino coinvolgendo il parentame di quarto grado, chi improvvisò casupole e fienili per sfuggire alla confisca. E così i risultati, come si protestò subito da sinistra, non furono quelli promessi. Va comunque detto che era il primo vero tentativo, da parte dello Stato, di schiodare la grande proprietà fondiaria dalle sabbie del suo assenteismo.

Nel frattempo, lo stesso anno veniva creata la Cassa per il Mezzogiorno, prorogata fino al 1984. Alla rete di infrastrutture costruite con finanziamenti pubblici, tuttavia, si intrecciò presto quella del clientelismo:

la piovra democristiana trovò nel meridione l’humus ideale per l’innesto della propria strategia di colonizzazione dello Stato, fatta di patti locali, usi e abusi di potere.

Del resto, la Dc aveva già il monopolio di Federconsorzi e Coldiretti, enti fondamentali nell’amministrazione dei contributi statali per le zone agricole.

Volendo tirare le somme di questa riforma a metà, un primo punto riguarda i limiti, peraltro riconosciuti anche dai suoi sostenitori. La terra espropriata non bastava per le esigenze dei contadini, a cui spesso toccarono in sorte gli appezzamenti più sterili. Rimanevano irrisolti nodi come la riforma dei patti agrari, i piani di bonifica, i salari dei braccianti – basti pensare che le organizzazioni dei lavoratori avevano poteri solo consultivi sul tema delle assunzioni.

Ma il prezzo più alto pagato dal movimento contadino fu, come ha osservato Paul Ginsborg nel suo severo bilancio, in termini di ethos. Destinata a dividersi e disperdersi soprattutto nel meridione, la classe contadina riassaporò la sfiducia secolare che ne aveva avvelenato le speranze: finì per dipendere dagli enti di riforma, lasciando stare cooperative e occupazioni. Valori come solidarietà, egualitarismo e sacrificio finirono in una fossa comune come morti di cui sbarazzarsi in fretta, con qualche zolla di fango sopra e nemmeno una pietra a mo’ di ricordo.

Bibliografia: P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, 1989; M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1958; E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1961

Alessandra Pogliani
Ostile al disordine e col cruccio di venire a capo dell’anarchia del mondo, per contrappasso nella vita studio storia.

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