Il 15 novembre, il Tribunale di Roma ha visto in una delle proprie aule prendere inizio il processo che vede al banco degli imputati lo scrittore Roberto Saviano, portato in aula dalla querela fatta partire da Giorgia Meloni.
Ripercorriamo gli avvenimenti che hanno portato alla situazione odierna: siamo nel 2020, durante una puntata di Piazzapulita, su La7, si affronta l’argomento immigrazione, con focus su migranti e operato delle ONG. Viene mandato in onda un video di un salvataggio in mare in seguito al ribaltamento di un’imbarcazione girato dalla ONG Open Arms. Nel video si vede una madre che, appena salvata dal mare, si sporge disperatamente dal gommone urlando di aver perso dalle braccia il figlio di 6 mesi. Il piccolo verrà trovato, già morto.
A seguito di questo video, Saviano si scaglia contro Meloni e Salvini accusandoli di tutto il ciarpame detto sulle Ong: “taxi del mare”, “crociere”. Mi viene solo da dire “bastardi” a Meloni, a Salvini: bastardi. Come avete potuto? Come è stato possibile descrivere così tutto questo dolore?
L’allora parlamentare senza incarichi di governo Meloni aveva quindi querelato lo scrittore per diffamazione. Salvini non aveva proceduto allora, ma oggi si costituisce parte civile nel processo ed attraverso le parole del proprio avvocato chiede un risarcimento qualora Saviano venisse giudicato colpevole perché sentitosi danneggiato dal reato.
Ma come è regolato il reato di diffamazione e a quale pena potrebbe andare incontro Saviano? L’art. 595 del Codice Penale prevede, in particolare per l’utilizzo del mezzo stampa o di un qualsiasi altro mezzo di pubblicità, come è avvenuto in questo caso, la pena della reclusione fino a 3 anni o della multa non inferiore a 516 euro. Sono tre i casi previsti dal Codice Penale per cui si rientra nell’esercizio del diritto di cronaca, satira e critica e non nella fattispecie della diffamazione: nel caso in cui i fatti riportati corrispondano a verità; se, nell’esporre la critica, si rispetta continenza nel modo di esprimersi; nel caso di comprovato interesse sociale a conoscere la notizia.
Anche il primo ministro Meloni ha parlato attraverso il proprio avvocato, il quale ha spiegato come la querela sia nata dall’astio utilizzato dallo scrittore, aggiungendo però, in risposta ad alcuni giornalisti, di non voler chiudere alcuna porta che possa portare ad una risoluzione.
Che il presidente del consiglio stia valutando di ritirare la querela? L’unica cosa certa è che i primi atti del processo sono avvenuti e che Saviano aspetta di essere giudicato per altre due querele per diffamazione fatte partire da altrettanti ministri dell’attuale governo. Una da parte del vicepresidente Salvini risalente al 2018 per essere stato definito ministro della malavita, l’altra da parte dell’attuale ministro della cultura Sangiuliano quando, alla propria nomina come direttore del Tg2, sempre nel 2018, Saviano aveva commentato: «Sangiuliano direttore del Tg2 peggio di così non si poteva […]. Noi campani lo ricordiamo bene, galoppino di Mario Landolfi, Italo Bocchino, Nicola Cosentino, Amedeo Laboccetta».
Roberto Saviano si è invece difeso affermando pubblicamente le proprie ragioni; rivendicando con decisione, proprio a Piazzapulita il 18 novembre, il diritto alla critica, anche aspra, nei confronti di chi detiene un potere così alto.
Le parole di Saviano hanno insistito proprio sulla necessità di una libertà di espressione e di toni proporzionati al potere che si sta affrontando. Le parole di Saviano hanno suscitato molte e diverse reazioni: chi, come Michela Murgia, ha parlato della necessità per una comunità di avere chi urli di indignazione contro delle ingiustizie, o chi, come Chiara Valerio, ha sottolineato l’importanza per uno Stato di lasciare la libertà di rappresentanza a tutte le idee, schierandosi a fianco di Saviano. Allo stesso tempo, c’è anche chi, come Sallusti (che provocatoriamente ha titolato Saviano bastardo e lo ha criticato aspramente, con parole anche più forti di quelle usate dallo scrittore napoletano, per poi invitarlo a querelarlo), ha sottolineato come lo scrittore abbia semplicemente superato i limiti accettabili della critica, lasciandosi andare a semplici insulti non giustificabili.
Nel giornalismo si deve cercare di riportare i fatti nel modo più sincero possibile e, per fare ciò, è inutile inseguire una sovrumana equidistanza, bensì bisogna perseguire quella che Saverio Tommasi definiva l’onestà della prospettiva. Per questo motivo possiamo indicare come condivisibili le idee espresse da Chiara Valerio, che su Repubblica ha sottolineato come «la giustizia può definirsi solo mediante l’uguaglianza e non c’è uguaglianza tra Roberto Saviano e chi lo ha querelato, e dunque, non può esserci nemmeno definizione di giustizia». Non c’è uguaglianza perché chi lo ha querelato rappresenta lo Stato: si tratta di persone che ricoprono tra le più importanti cariche del governo e che stanno invece portando in Tribunale un singolo cittadino.
Meloni non può che rappresentare il governo e, in quanto tale, lo Stato e quando agisce lo fa non come privata cittadina. Uno Stato democratico non può schierarsi contro chi lo critica, anche aspramente, perché anche questa è la linfa della vita democratica.
Ci sono dei limiti, si potrebbe dire. È proprio da questo concetto che parte la lettura e provocazione di Sallusti che però, come sottolineato da Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani sul Sole 24 Ore, interpreta erroneamente le parole di Saviano. Il Saviano bastardo pezzo di m. del direttore di Libero parte dalla convinzione che, quando lo scrittore napoletano ha affermato «Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. […] Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla», si sia dato, in quanto scrittore, il diritto di usare indiscriminatamente qualsiasi termine. Ecco che allora Sallusti, ricordando di essere anch’egli scrittore, muove la sua durissima critica.
È su questo che i giornalisti del Sole 24 Ore non concordano con il direttore del giornale milanese, sottolineando come Saviano si sia arrogato, sì, il diritto di usare la parola come arma, ma che la potenza della stessa dipenda, come poi Saviano ha ribadito alla già citata nuova puntata di Piazzapulita, dal bersaglio a cui si rivolge. Nel caso di leader politici come Meloni e Salvini, e quindi espressione del massimo livello di un certo potere, le parole sono l’unico disinnesco utilizzabile. Non una libertà per pochi eletti intellettuali perché, citando d’Eril e Vigevani, tale libertà è funzionale al controllo del potere, diversamente sarebbe solo un privilegio di persone iscritte a un albo o che svolgono un certo mestiere. E ancora, è assai chiaro che gli interessi collettivi, come quello di essere informati così da arginare il potere, fanno premio su quelli solo individuali, come la tutela della propria buona fama.
Quale il senso di tanto clamore per la vicenda dello scrittore napoletano? Quale il senso di chi chiede il ritiro delle querele sottolineando la gravità della situazione? Quello per cui oggi si ritiene sotto processo non tanto Saviano, quanto il sistema di cronaca, critica e libertà di parola proprio della nostra democrazia.
Per i fatti avvenuti, ad essere portate in tribunale, di fatto, sono la libertà di parola e la libertà di scegliere la forza delle proprie parole in base al bersaglio della critica. Perché è su questi concetti che si dovrà concentrare la riflessione del magistrato. Una democrazia indiretta necessita di concedere queste facoltà per permettere un costante controllo e riflessione sulle attività dei politici da parte dei cittadini che quei politici li hanno scelti; hanno concesso loro la libertà di agire, ma necessitano di un’informazione schietta per poter giudicare l’azione di chi esercita il potere. Ci deve essere chi possa urlare di indignazione, come dice Murgia. Allo stesso tempo, queste libertà sono anche di chi viene criticato che può rispondere; forse dovrebbe; e così facendo, addirittura, onorerebbe la facoltà di critica democratica.
Un altro concetto è da chiarire con decisione: le parole di chi critica la querela di Meloni non sono mosse contro la magistratura o per paura di una giustizia miope, ma a favore di diritti fondamentali per una democrazia. Nonostante la fiducia in un giusto procedimento in tribunale, quello che si chiede è un gesto forte. In questo momento, ritirando la querela, i rappresentanti del Governo, e quindi dello Stato, non eviterebbero tanto un processo ad un povero scrittore, ma riaffermerebbero e ri-legittimerebbero le libertà di cronaca, informazione e critica fondamentali per una democrazia indiretta.
Articolo di Giuseppe Coda