Del: 4 Novembre 2022 Di: Maria Pia Loiacono Commenti: 0
Robinù è la storia degli invisibili

Robinù è un film documentaristico diretto da Michele Santoro, uscito nel 2016. La pellicola tenta, attraverso i racconti dei protagonisti, una narrazione della guerra tra il clan Giuliano e il clan Sibillo nei luoghi dei quartieri Forcella-Decumani, con un occhio curioso di apertura e privo di un qualsiasi tipo di pregiudizio.

Il titolo fa riferimento al soprannome di uno dei protagonisti, da sempre schierato con i più “deboli”.

Il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Venezia 2016, nella sezione Cinema del Giardino. Protagonisti sono molteplici adolescenti e giovani adulti coinvolti nella criminalità organizzata, ed è attraverso le loro voci che Santoro descrive l’insofferenza di una significativa parte della popolazione dimenticata dallo Stato che si ritrova quotidianamente a considerare normalità ciò che normale non è.

Robinù è l’appellativo che descrive tutti quei ragazzi (molti dei quali non ancora maggiorenni) che sono riusciti ad imporsi nella scena della criminalità organizzata diventando i protagonisti della «paranza dei bambini»: sono perlopiù giovani privati di una qualsiasi speranza nei confronti del futuro, il quale per loro, sembra essere stato già scritto.

In assenza di un buon livello di istruzione e quindi esprimendosi difficilmente in italiano, durante le loro conversazioni prediligono come argomenti cardine la droga, le armi e gli omicidi. Principali attori di una guerriglia nata dalla volontà di ottenere il controllo del territorio, si tratta di una mattanza del nuovo cartello criminale formato dai giovani Sibillo e dagli eredi del clan Giuliano.

Dal documentario trapela un microcosmo che sembra sia invisibile, ed è attraverso le testimonianze dei ragazzi che si ha la possibilità di assistere ad un racconto lucido di cui i protagonisti sono i piccoli boss che fanno carriera, la disperazione delle madri di quest’ultimi (che spesso volenti o nolenti si ritrovano a rientrare nei giri della malavita per mantenere i propri figli o i propri mariti in carcere) e infine l’immediata canonizzazione di chi non c’è più.

Emergono le storie di Mariano, il baby boss del clan D’Amico di Ponticelli conosciuto per il controllo della periferia orientale di Napoli. Attualmente sta scontando una condanna di 16 anni nell’istituto Penale Minorile di Airola per omicidio legato a finalità camorristiche.

Guardando in camera spiega con naturalezza che «oggi comanda chi fa più reati, più reati fai, più la gente ha paura di te» e che dopo gli spari permane l’indifferenza: «ti levi lo zolfo di dossi, ti pulisci, ti fumi una canna e stai apposto».

È figlio di una nuova generazione camorristica orfana spesso di padri morti in agguati o di detenuti che hanno preferito non “girarsi” diventando collaboratori di giustizia.

C’è poi la storia di Annunziata D’amico, sorella di Giuseppe D’amico, detto Fraulella, che ha ereditato le redini del clan stesso quando quest’ultimo è stato arrestato. Legata a Salvatore Ercolani, latitante dal 29 aprile 2013 e arrestato poi nel 2014, iniziò a impartire direttive al clan in seguito alla cattura del compagno. Venne uccisa ad ottobre del 2016 in un agguato accaduto sotto casa.

Un altro protagonista è Michele detto «Michelino» la cui condanna è stata di 24 anni: rapinatore, fin da giovanissimo, si mise a servizio di Salvatore Marino e Massimo Castellano, personaggi di spicco del clan Mazzarella. Lui però dice di distinguersi per il fatto di «non essere sotto a nessuno», conducendo i propri affari in piena autonomia.

Compare poi anche il fratello di Michele, emigrato in Francia per «vivere di lavoro». Racconta di un inizio tumultuoso e mostra la sua prima «casa» una volta arrivato a Parigi: un cassonetto condiviso con un altro senzatetto maghrebino. Lui è uno degli esempi preso in considerazione per la narrazione di una quotidianità diversa, lontano dalla criminalità organizzata.

L’unico vero assente di questa storia è quindi lo Stato, che prende tutti i vantaggi del welfare criminale e non garantisce ai propri cittadini una strada di riscatto dalla malavita.

Si tratta di una vera e propria disumanizzazione di ragazzi succubi di una crisi radicata nel percorso della loro crescita.

Lo stesso Santoro, in una intervista per il Corriere della Sera dice:

Quando studio le storie di quei ragazzi, mi identifico nelle mie vicende familiari. Io ho avuto in mio padre un esempio straordinario, col suo stipendio da macchinista delle ferrovie ha portato cinque figli fino agli studi universitari. Ma da bambino a Salerno sono cresciuto per strada: c’era una forte dinamica di bande che si affrontavano nelle vie, avrei potuto precipitare anch’io chissà dove, le occasioni negative c’erano. E così, da ragazzo, molte persone che ho conosciuto, magari per emulazione, sono finite nella lotta armata e hanno ammazzato. Per questo penso che certi mondi vadano contagiati positivamente: e tocca a noi. Mai rinchiuderli in un ghetto, così si perpetua tutto.

Il film è stato presentato in anteprima proprio nel carcere di Poggioreale a Napoli, durante cui i ragazzi hanno ricevuto un messaggio direttamente dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha sottolineato l’importanza di considerare il carcere come un luogo dove non deve essere negata la speranza, permettendo ai detenuti di essere riconsiderati una volta usciti di galera, da una società che si ritrova ad essere spesso impaurita e poco tollerante nei confronti di quest’ultimi.

Pochi giorni fa però, si è aperto uno spiraglio di speranza.

Il 17 ottobre scorso, infatti, è stata inaugurata una sede universitaria della facoltà di medicina a Scampia, quartiere periferia del nord di Napoli e teatro per anni di guerre di camorra.

Quello dell’apertura di un polo universitario è un forte segnale: l’educazione in primis e l’attenzione nei riguardi dei luoghi degradanti secondariamente, potrebbero essere dei primi piccoli passi verso una riconsiderazione di tutti quei ragazzi giovanissimi che prendendo consapevolezza di nuove possibilità, potrebbero scegliere altre strade oltre a quella della criminalità, che fino ad ora in molti quartieri partenopei, è stata l’unica alternativa contemplata.

Maria Pia Loiacono
Studentessa di beni culturali, scrivo con lo scopo di imparare più cose del mondo che mi circonda, cercando di farmi e farvi incuriosire.

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