
Nel dicembre del 2010, il Comitato Esecutivo della FIFA ha assegnato al Qatar la Coppa del Mondo 2022, facendo diventare la ricchissima monarchia del Golfo Persico il primo paese arabo a ospitare tale competizione. Il Mondiale, il cui inizio è previsto per il 20 novembre e diventando così la prima edizione del torneo a non essere disputata d’estate, ha attratto aspre critiche circa il mancato rispetto dei diritti umani, specialmente dei lavoratori immigrati da cui il Qatar dipende. Quasi il 90% della popolazione del Qatar è composta da lavoratori stranieri, impiegati nei settori più disparati.
Le infrastrutture necessarie per il torneo, dal costo stimato di oltre 220 miliardi di dollari, sono state tutte costruite da decine di migliaia di lavoratori immigrati.
Questi, provenienti per la maggior parte da paesi in via di sviluppo quali l’India, il Pakistan o il Bangladesh, hanno dovuto fare affidamento al sistema della “kafala” per ottenere un posto di lavoro. Il sistema della “kafala”, molto diffuso oltre che in Qatar anche in altri paesi del Golfo Persico, richiede che tutti i lavoratori immigrati debbano avere uno sponsor nel paese in cui si recano per lavorare, il quale è responsabile del loro permesso di soggiorno e del loro status legale. Tale pratica è stata ampiamente criticata da diverse associazioni per i diritti umani, in quanto rende i lavoratori suscettibili ad un ampio ventaglio di abusi e sfruttamento. Questi, infatti, dopo aver pagato somme considerevoli per sbrigare la burocrazia necessaria, si sono ritrovati in condizioni di vita e d’impiego quasi ai limiti dello schiavismo. Diversi lavoratori hanno testimoniato che non erano autorizzati a lasciare il paese poiché i loro passaporti venivano spesso confiscati appena dopo l’ingresso in Qatar. Altri hanno raccontato di come i salari, in molti casi decisamente più bassi di quanto promesso, fossero trattenuti per mesi dai datori di lavoro, i quali spesso non fornivano loro i documenti di residenza necessari, rendendoli a tutti gli effetti lavoratori illegali e, perciò, vulnerabili all’espulsione in qualsiasi momento. Nonostante alcune timide riforme introdotte dal 2017 in seguito alle pressioni dell’International Labour Organization, il sistema della “kafala” in Qatar non è stato toccato o modificato, tanto che secondo Human Rights Watch i datori di lavoro continuano ad esercitare un potere sproporzionato e arbitrario sui loro sottoposti.
Dall’assegnazione del mondiale fino ad oggi, secondo un’analisi del quotidiano britannico The Guardian, sono oltre 6500 i lavoratori immigrati morti durante i lavori, un numero che si stima essere addirittura inferiore a quello effettivo. Questa cifra tragica testimonia le condizioni disumane in cui queste persone sono tenute: in dormitori sovraffollati spesso senza nemmeno cibo e acqua, costretti a lavorare anche 18 ore al giorno nei cantieri sotto il sole, con temperature che sfiorano i 45 gradi durante i periodi più caldi. Queste condizioni brutali sono aggravate dal fatto che i lavoratori spesso non possono accedere al sistema sanitario qatariota o a qualsiasi altra forma di assistenza sanitaria, in quanto in certi casi non vengono forniti loro i documenti necessari per avere cure mediche. Chi si rifiuta di lavorare rischia di vedere il proprio contratto di lavoro rescisso, venendo deportato al proprio paese d’origine con il debito contratto per lavorare in Qatar ancora tutto da pagare.

Alla luce degli abusi perpetrati, la FIFA è stata criticata per non aver fatto abbastanza per garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, oltre ad essere stata accusata di corruzione per aver assegnato la Coppa del Mondo al Qatar su basi discutibili. Fino al 2016 la FIFA non ha mai riconosciuto le proprie responsabilità nei confronti dei lavoratori impiegati per il Mondiale, limitandosi in seguito a sollecitare l’adozione degli “Standard di Benessere dei Lavoratori” formulati dal Qatar stesso, senza che però questi siano mai stati effettivamente implementati in maniera credibile. La FIFA ha difeso le proprie azioni in una risposta ad un report di Amnesty International, promettendo di irrobustire il proprio meccanismo di revisione e controllo interno e affermando che la Coppa del Mondo è servita al Qatar come catalizzatore per migliorare la propria legislazione circa i diritti del lavoro, elogiando il paese per aver contribuito alla promozione dei diritti umani. Nonostante i buoni propositi, tale affermazione pare stridere di molto con il rapporto di Freedom House sul Qatar del 2022.
Il paese è classificato come un “paese non libero” con un punteggio di 25 su 100, caratterizzato da pochissime libertà civili e forti discriminazioni istituzionali nei confronti di stranieri, donne e membri della comunità LGBTQ+.
La difficile situazione dei diritti umani in Qatar e il trattamento dei lavoratori impiegati per la Coppa del Mondo ha generato una risposta internazionale da parte degli sponsor della competizione, che cercano di evitare la cattiva pubblicità derivante dall’essere associati ad essa, oltre che dalle squadre nazionali qualificatesi. Per esempio, ING Group, importante gruppo bancario sponsor delle nazionali di Olanda e Belgio, ha dichiarato che non avrebbe preso parte a nessun tipo di promozione della Coppa del Mondo. Allo stesso modo due degli sponsor della nazionale danese, Danske Spil (la lotteria nazionale danese) e Arbejdernes Landsbank (la principale banca del lavoro del paese), hanno accettato di dedicare lo spazio pubblicitario acquistato sulle maglie da allenamento per diffondere messaggi di sensibilizzazione sui diritti umani. La nazionale tedesca ha annunciato che, nonostante il 54% dei tedeschi sia a favore del boicottaggio secondo un sondaggio di Der Spiegel, parteciperà al mondiale, ma anche lei indosserà divise per cercare di affrontare, senza creare troppi dissapori con il paese ospitante, il tema dei diritti umani. Harry Kane, capitano della nazionale inglese, ha dichiarato, assieme ad altri nove capitani, tra cui quelli di Francia e Svezia, che per tutta la durata del mondiale gareggerà con la fascia di OneLove al braccio. OneLove è la campagna contro la discriminazione e a favore dei diritti della comunità LGBTQ+ promossa dalla FIFA, la quale sembrava volesse sanzionare chi avesse preso parte a tale iniziativa in Qatar, dove l’omosessualità è un reato punito con la pena di morte. La FIFA non ha ancora ufficializzato la sua posizione a riguardo.

Con l’inizio del mondiale ormai alle porte, nessuna delle squadre partecipanti sembra essere intenzionata a non prendervi parte, preferendo messaggi di solidarietà e sensibilizzazione a un boicottaggio completo della competizione. Va sottolineato che questa non è l’unica edizione del Mondiale ad aver sollevato critiche. In Brasile nel 2014 gli organizzatori vennero accusati di aver fatto “pulizia sociale” prima dell’inizio della competizione, costringendo decine di migliaia di abitanti delle favelas, i quartieri informali alla periferia delle grandi città brasiliane, a lasciare le proprie case. Nel 1978 il Mondiale venne tenuto in Argentina, al tempo sotto il governo della giunta militare del dittatore Jorge Videla, accusato in seguito di genocidio e crimini contro l’umanità, mentre l’edizione del 2018 è stata ospitata dalla Russia senza particolari problemi, nonostante l’annessione della Crimea avvenuta nel 2014.
Sebbene non si sappia ancora se la Coppa del Mondo 2022 sarà un successo o meno, nonostante gli scandali e nonostante i continui, documentati e ripetuti abusi, sicuramente il dibattito che ha generato dovrà portare ad una riflessione sul ruolo dello sport in situazioni simili, in cui si trova a dover scegliere tra tornaconti economici e prese di posizione morali.
Articolo di Lorenzo Pellegrini