Sono passati oltre tre mesi da quando, il 16 settembre, la ventiduenne curdo-iraniana Mahsa Amini è deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per aver violato le severe leggi sul velo in vigore nel paese. Questo avvenimento ha cristallizzato l’opinione pubblica iraniana, portando a proteste inizialmente focalizzate sulla questione dei diritti delle donne nella Repubblica Islamica – l’Iran è una teocrazia sciita – per poi allargarsi sempre di più, arrivando a diventare una sfida aperta nei confronti del regime.
Per metterle in prospettiva, il paese non ha avuto esperienze di movimenti di protesta capaci di coinvolgere così tanti segmenti diversi della popolazione dal 1978, l’anno della Rivoluzione Islamica. Questa è la stessa che ha portato alla caduta del regime filo-occidentale dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, il cui regno autoritario è stato caratterizzato da un misto di modernizzazione e soppressione violenta di qualsiasi dissenso, a cui ha fatto seguito l’instaurazione dell’attuale regime teocratico al centro della contestazione.
Per una cronaca delle prime fasi delle proteste delle donne iraniane vi invitiamo a leggere anche l’articolo di Vulcano a riguardo, pubblicato a ottobre.
L’allargamento delle rivendicazioni e la modifica del tono delle proteste sono evidenti se si guarda agli slogan maggiormente utilizzati dai manifestanti.
All’iniziale «Donne, Vita e Libertà», testimone della prima fase in cui sono state soprattutto le donne iraniane a scendere in strada, si è affiancato ben presto il più generale «Morte al Dittatore», indirizzato nei confronti dell’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema del paese a partire dal 1989.
L’estensione a macchia d’olio delle proteste ha ovviamente intimorito Teheran. Il governo ha attuato e sta attuando tuttora una politica di repressione brutale nei confronti dei manifestanti. I miliziani delle Guardie della Rivoluzione Islamica, il corpo paramilitare fedelissimo al regime nato dopo la deposizione dello Shah, assieme ai vari servizi di sicurezza alle dipendenze del Ministero dell’Interno hanno provocato oltre 572 morti, tra cui 69 bambini, e più di 1160 feriti. In questo conteggio rientrano anche i 66 membri delle forze di sicurezza che secondo il regime sono stati uccisi dall’inizio delle proteste.
Va sottolineata la difficoltà di stimare il costo in vite umane delle recenti manifestazioni. Se da un lato è quasi impossibile avere una stima esatta, dall’altro dottori e medici di tutto il mondo stanno aiutando i loro colleghi iraniani per catalogare il numero effettivo di morti e feriti, aggirando la censura di regime. Nonostante l’altissimo costo in termini di vite umane, queste non sono ancora le proteste più sanguinose tra quelle che attanagliano il paese a partire dal 2017.
Tra il 2019 e il 2020 l’Iran è stato investito da un’altra ondata di rivolte, scatenate dall’aumento del 200% dei prezzi del carburante, sommati alla crisi idrica in corso nel paese, alla gestione della pandemia di COVID-19, alla crisi economica e più in generale al sentimento di rancore nei confronti del regime. Queste proteste si stima abbiano provocato oltre un migliaio di morti e settemila arresti.
In aggiunta alla violenta repressione interna, il regime iraniano ha impiegato nel mentre un ampio ventaglio di strategie per arginare l’allargarsi delle proteste e tentare di sopprimerle definitivamente.
Innanzitutto, ha bloccato in diverse occasioni Internet all’interno del paese, impedendo l’accesso a social media quali Instagram e WhatsApp per rendere più difficile l’organizzazione delle proteste. Oltre a ciò ha iniziato ad implementare programmi di riconoscimento facciale per indentificare i manifestanti. In risposta ai blocchi del regime, il 9 ottobre, i principali canali televisivi iraniani sono stati hackerati e le televisioni di tutto il paese hanno mostrato per oltre 10 secondi messaggi e propaganda anti-regime.
L’Iran ha inoltre attaccato e successivamente minacciato di invadere i territori settentrionali del vicino Iraq, in quanto in quella regione risiede una folta maggioranza curda, accusata di fornire supporto materiale ai rivoltosi. Queste proteste hanno infatti riacceso il mai indebolitosi conflitto tra il governo centrale e le diverse minoranze etniche sparse per il paese. In particolar modo i Curdi, concentrati nella regione nord-ovest, e i Baloch, presenti principalmente nel sud-est del paese.
Un evento singolare è avvenuto in seguito all’eliminazione della nazionale di calcio iraniana dal recente Campionato del Mondo tenutosi in Qatar. Al termine della partita, persa inoltre contro l’arcinemico del regime, gli Stati Uniti, in molti si sono riversati in strada per festeggiare l’eliminazione. Le forze di sicurezza hanno reagito violentemente a ciò. È importante notare come anche la nazionale di calcio iraniana abbia avuto un ruolo durante queste proteste, rifiutandosi di cantare l’inno durante la loro prima partita contro l’Inghilterra, in segno di solidarietà nei confronti dei manifestanti. Questa dimostrazione non è passata inosservata e i calciatori sono stati costretti a cantarlo nella partita successiva.
Il regime di Teheran non si è fatto scrupoli ad impiegare anche la violenza sessuale per instillare un clima di terrore, come emerge da un rapporto della CNN.
Anche Amnesty International e Human Rights Watch hanno verificato indipendentemente diversi casi di violenza sessuale impiegata a scopo intimidatorio nei confronti dei manifestanti arrestati, compiuti in diverse carceri per mano delle forze di sicurezza iraniane.
L’allargamento delle proteste, a cui recentemente si sono uniti anche studenti universitari, operai delle acciaierie, delle raffinerie e gli autisti del settore della logistica, e la loro soppressione hanno avuto un impatto profondo anche sul destino dei manifestanti arrestati dalle forze di sicurezza. In Iran, infatti, vige la pena di morte e in particolar modo è il paese con più esecuzioni confermate al mondo dopo la Cina. L’8 dicembre è avvenuta la prima esecuzione confermata di un manifestante. Il ventitreenne Majidreza Rahnavard è stato impiccato da una gru dopo essere stato accusato di aver aggredito con un coltello due poliziotti. I media di stato iraniani hanno pubblicato diverse foto e filmati dell’esecuzione di Rahnavard, mani e piedi legati e la testa coperta da un sacco nero, oltre ad una lista di 25 altre persone condannate a morte.
Qualche giorno dopo Rahnavard, il 12 dicembre, anche Mohsen Shekari è stato giustiziato per aver bloccato una strada e aver attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete. L’agenzia di stampa governativa Mizan ha pubblicato un report nel quale Shekari è accusato di aver accettato un pagamento per partecipare alle proteste, assecondando la narrativa di regime secondo la quale l’Occidente è il vero responsabile e fomentatore delle proteste, volte a forzare un cambio di regime nel paese.
Tra chi invece è stato condannato a morte risalta il caso del dottor Hamid Ghareh Hassanlou, radiologo di 53 anni arrestato assieme alla moglie, la quale è stata condannata a 25 anni di carcere.
La coppia si era ritrovata in un corteo di manifestanti prima di essere arrestata. Hassanlou è stato condannato a morte dopo che l’avvocato d’ufficio assegnatoli non ha presentato alcun argomento in sua difesa, spronandolo invece ad accettare l’accusa di «crimini contro Dio». Questa è la traduzione del termine «moharebeh», il quale indica, nella giurisprudenza iraniana, qualsiasi atto contro lo Stato o contro la sicurezza pubblica.
Il fratello di Hassanlou, che attualmente risiede nei Paesi Bassi, ha commentato come assolutamente pretestuosa e ingiusta la condanna del fratello. Hassanlou è descritto come un uomo mite e con precise opinioni circa le tematiche che lo interessano. Era anche parte di un gruppo, assieme a quattro altri dottori, dedito alla costruzione di cliniche nelle aree più povere del paese. I report più recenti parlano di almeno 39 persone che rischiano la pena di morte, in seguito a processi molto poco regolari tenutisi nei Tribunali Rivoluzionari, le corti iraniane incaricate di processare chi è accusato di blasfemia o di crimini contro lo stato.
Nonostante le modalità brutali con cui vengono soppresse le rappresaglie nei confronti dei manifestanti, le proteste in atto nel Paese non sembrano accennare a calare d’intensità. La repressione da parte del regime sembra aver solamente allargato il fronte del dissenso, creando una coalizione eterogenea e compatta capace di minarne seriamente la stabilità. Nei prossimi mesi si vedrà come un Iran sempre più in crisi, economica oltre che sociale, oltre che sotto una sempre più costante pressione internazionale reagirà. Al momento nessuna evoluzione della situazione appare scontata, se non quella di un sempre maggiore spargimento di sangue.
Articolo di Lorenzo Pellegrini