Del: 25 Dicembre 2022 Di: Redazione Commenti: 1
I 10 film più "vulcanici" dell'anno

Anche questo lungo 2022 sta per concludersi e la redazione di Vulcano Statale ha preparato una lista dei 10 film più “vulcanici” di quest’anno.

A cura di Luca Pacchiarini


Il 2022 è iniziato e già passato, le aspettative erano molte per il primo anno senza restrizioni da inizio pandemia, l’auspicio era che la crisi delle sale cinematografiche si alleviasse. Sfortunatamente questo non è avvenuto come si sperava e, in particolare in Italia, le sale accusano una carenza di spettatori e una ripresa lenta, soprattutto se paragonata a dati del 2019.

Molti si chiedono il motivo di questa crisi:

c’è chi accusa le piattaforme, chi denuncia una certa pigrizia e disabitudine nel pubblico e chi evidenzia un problema culturale generale e complesso che sfocia nella scarsa voglia di cinema in sala. Le piattaforme invece crescono ed aumentano (quest’anno se ne sono aggiunte due nuove: Discovery+ e Paramount+), in Italia c’è un incremento del loro utilizzo, con Netflix che rimane il sito di streaming più usato nel mondo, anche se la piattaforma più in crescita è Disney Plus.

In testa per incassi al box office rimangono i blockbuster americani, con Minions 2, Doctor Strange in the Multiverse of Madness, Top Gun: Maverick e Avatar: the Way of Water che raggiungono le cifre più alte dell’anno; il cinema italiano non eccelle al botteghino, La Stranezza è per ora il titolo con l’incasso maggiore Il cinema italiano è in vita e produce ma con varie ombre che molti accusano.

Parlando di uscite si può dire che sia stato un anno ricco, la maggior parte concentrate nella seconda metà dell’anno, alcuni grandi autori non hanno deluso le aspettative (ad esempio Spielberg e Cameron), il cinema indipendente e d’essai ha saputo dare, come sempre, meravigliose opere come l’interessante Il Cristo in Gola di Antonio Rezza, l’esordio alla regia di Jasmine Trinca nel sognante Marcel! ed il commuovente Il Corsetto dell’Imperatrice di Marie Kreutzer.

Fatte queste premesse, vediamo quali film usciti nel 2022 sono stati selezionati dalla redazione di Vulcano. Buona visione!

DISCLAIMER: questa lista non è una classifica e l’ordine è quindi casuale


Love Life (Koji Fukada)

Passato un po’ in sordina, questa meravigliosa pellicola giapponese può risultare straniante, mettendo involontariamente in luce le differenze nella gestione del dolore, in culture diverse. Il film racconta di Taeko, donna felicemente sposata con Jiro e madre di Keita, bambino avuto in una precedente relazione. Un drammatico dolore romperà irreversibilmente questo nucleo famigliare, portando al ritorno improvviso di Park, padre biologico del bambino, sparito da anni e che ora vive da senzatetto. Taeko cercherà di superare il dolore e aiutare l’ex compagno, confrontandosi con una silenziosa sofferenza continua. Proprio la quiete nel tormento è una delle cifre stilistiche di un’opera molto interessante, che fa della freddezza stilistica una scelta registica propedeutica ad una frustrazione immensa, ad un’afflizione interiore che si fatica a gestire

In Love Life tutto questo è in perfetta antitesi con una pulita illuminazione, accesa ma non viva, quasi a isolare ancora di più il dolore dei protagonisti, ancora più freddamente trattati, come se smorzasse un urlo che si fatica a far uscire. Il melodramma raccontato non combacia con le scelte apportate per raccontarlo, sembra che l’accaduto non sia così grave, perché non viene caricato di drammaticità, bensì presentato come un fatto incidentale, questa coraggiosa scelta di Koji Fukada può far storcere il naso, ma permette di confrontarsi con la quotidianità, con la sensazione di alienazione e avvicinamento a ciò che viene mostrato, si comprende ciò che accade ma non lo si sente.

Tale tecnica porta ad una maggiore difficoltà nel gestire ciò che accade, allora ancora più incomprensibile pare la tragedia. In tutto ciò Taeko è tra due uomini, uno che ama con affetto e sentimento, l’altro a cui non riesce a non voler bene, amandolo con tenerezza e premura. Un dramma atipico quindi, adulto e che stupisce ma può non convincere, candidato al Leone D’oro a Venezia nel 2022.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Gli Orsi Non Esistono (Jafar Panahi)

Nell’anno della morte di Masha Amini e delle proteste in Iran, è impossibile non soffermarsi su Gli orsi non esistono, ultima fatica di Jafar Panahi, regista simbolo della new wave iraniana e dissidente del regime degli ayatollah. Il confine tra film e reportage si fa sottile nell’opera del regista che, rifugiato in un villaggio al confine con la Turchia, documenta al contempo le vicende di due innamorati in fuga da Teheran e di una relazione segreta nel villaggio in cui si nasconde.

Pur disponendo esclusivamente di una cinepresa ed un pc, attrezzature sicuramente lontane rispetto a quelle delle grandi produzioni, il regista riesce a catturare la realtà che lo circonda nella sua essenzialità, narrando nulla di più rispetto alle storie effettive di chi incrocia nel suo percorso. Dalle due storie degli amori proibiti e nascosti emerge un chiaro parallelismo, in cui il bisogno di vivere in libertà i propri sentimenti e le proprie relazioni si scontra inevitabilmente con le rigide costrizioni morali vigenti nella società iraniana.

Il risultato è una pellicola avvincente, a tratti cruda ed estremamente sincera, che, come le altre opere del regista iraniano, non si fa scrupoli nel raccontare la vita di un Paese complesso, andandone a sviscerare le dinamiche sociali e, talvolta, andando a mettere il coltello nella piaga delle sue contraddizioni. L’approccio visceralmente realista dell’autore si traduce in un’opera scomoda, in cui lo spettatore si sente immerso e prova un profondo senso di disagio e tensione man mano che i protagonisti, Panahi compreso, si trovano ad affrontare una serie di difficoltà e a dover prendere delle decisioni che, spesso e volentieri, potrebbero portare a tragiche conseguenze. Siamo sicuri del fatto che la pena di 6 anni di reclusione inflitta a Panahi per il reato di propaganda contro il regime non soffocherà il suo amore per il cinema, e ci auguriamo di vedere al più presto altre sue opere nelle sale.

Recensione di Michele Baboni.


Avatar: La Via dell’Acqua (James Cameron)

Rimandato continuamente per innumerevoli motivi, tra cui la grandezza del progetto del regista canadese, il secondo capitolo della saga arriva 13 anni dopo il primo, riportando il pubblico alla bellezza della luna Pandora. La giungla si fa da parte per una nuova ambientazione, protagonista dell’opera: il mare. Girato moltissimo sott’acqua in motion capture, lo stupore che lascia allo spettatore in sala, e solo in sala, è grandissimo: la meraviglia di un mondo vivo, grande, paradisiaco è forte. Certo la trama è scontata e vi sono varie soluzioni drammaturgiche ripetitive, ma poco importa in un’opera che punta ad altro. Un gustoso effetto spacca mascella che da molto non si vede in sala. Il racconto è ora della famiglia Sully, costretta dal ritorno della guerra contro gli umani a emigrare verso un clan del mare, ma la guerra li segue.

È un film che merita, che necessita, che deve essere fruito in sala e, per avere un’esperienza ancora più immersiva, in 3D. Questa tecnologia, ritenuta morta da molti, vive con il grande schermo e con un impianto audio di livello elevato, cattura lo spettatore per ben 3 ore che volano fluidamente. Non un’opera perfetta certo, numerose sono le critiche possibile che portano a non stupire quanto il primo capitolo, ad esempio manca la biodiversità animale e vegetale, o un qualcosa come le montagne volanti dei Monti Alleluia.

Il world building del primo capitolo aveva delle idee che stupivano di più, un po’ perché essendo il primo capitolo era tutto nuovo, un po’ perché alcuni elementi qui non sono presenti (la fauna e la flora marina tutto sommato non risultano così stravaganti rispetto a quella degli oceani terrestri). Ad ogni modo, il film sbalordisce e ricorda che il cinema è anche tecnica e muscoli e la tecnica stessa rappresenta un tema. Cameron lo sa e sperimenta con questo, come un’avanguardia di massa che fa parlare di tecnologia, con i suoi collaboratori crea nuove invenzioni come una motion capture che possa andare in acqua, il girare ad un frame rate più alto, un nuovo modo di pensare il 3D che sfrutta lo spazio medio.

Un blockbuster che ricorda cosa un grande schermo può dare, un progetto che ogni volta tocca i limiti estetici della sua epoca e li supera, come Roy Menarini scrive nell’articolo Teoria del Blockbuster su Film Tv rivista, facendo avanguardia nei multiplex con i popcorn.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Bones and All (Luca Guadagnino)

È sempre difficile trovare le parole adeguate a descrivere forti emozioni. Bones and All è un vero e proprio viaggio introspettivo, dal quale si uscirà con un bagaglio pieno di pensieri e sensazioni diverse, ma che ci avranno insegnato a osservare il mondo con una prospettiva diversa.

La storia di Maren (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet) è travagliata, fitta di sofferenze. Entrambi sono giovani cannibali: Maren è stata abbandonata da suo padre, ha una madre ma non sa nulla di lei e Lee non ha più rapporti con la famiglia ad eccezione di sua sorella.

Insieme riusciranno a trovare conforto e sostegno e, per la prima volta in tutta la loro vita, si sentiranno compresi e amati. La loro è una meravigliosa storia d’amore, puro e sincero, tra due persone sole, emarginate, alla costante ricerca della loro identità. Mai una volta ci si sentirà in diritto di giudicare ciò che fanno, anzi si proverà una grandissima compassione per loro, vinti da questa paradossale natura, che provano in tutti i modi a combattere per cercare di migliorare e non fare più del male.

Il film offre un grande insegnamento a tutti noi: in un mondo pronto a giudicare, emarginare, far sentire diverso, «forse l’amore ti può salvare». Forse è proprio questa la chiave di lettura da tener sempre bene a mente.

Recensione di Matilde Elisa Sala.


Rimini (Ulrich Seidl)

In una riviera romagnola nebbiosa e nevosa si esibisce Richie Bravo (Micheal Thomas), cantante melodico che vive della gloria di un successo molto lontano, si esibisce per anziane fan con cui, volente più che nolente, si prostituisce; viene sorpreso dall’arrivo di una famiglia abbandonata da piccola che chiede dei soldi. Richie Bravo sa dei suoi errori e decide di pagare il debito con la figlia, provando a rimediare come meglio riesce.

Un contesto umano per un personaggio meravigliosamente umano in un film sorprendente, che si prende i suoi tempi per raccontare un cambiamento fatto pian piano. Il protagonista vive di una gloria passata che però sa essere finita, non ci crede più se non come ricordo nostalgico, l’amore per il cantare è rimasto come un divertimento affettivo, un gioco tra il cantante ed il pubblico.

I personaggi intorno sono frammentati ma ci si affeziona, in particolare alle varie donne anziane con cui Bravo si prostituisce, meraviglioso veder raccontato la voglia sessuale in quegli individui che la società ritiene inutili, si sentono desiderate dopo e soffrono come adolescenti quando la serata non va. Tutto in una città artica, offuscata, ma in qualche modo bella nel suo essere brutta, in interni plasticosi e tipici della cultura di massa degli anni ’80. Rimini è una delle sorprese dell’anno, raffinato e umile con un certo gusto pop, commuove senza smielare e con un protagonista interpretato e scritto in modo magnifico, vero, vivo e sfaccettato, un uomo diventato genitore in un’istante, genitorialità che è chiave di tutta la pellicola.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Pinocchio di Guillermo del Toro (Guillermo del Toro)

La storia di Pinocchio è più che risaputa, chiunque ne ha sentito parlare. La rivisitazione proposta però da Guillermo del Toro è ben lontana dall’essere il tipico film d’animazione Disney.

La vicenda è ambientata in Italia, durante il ventennio, e il vecchio falegname Geppetto ha perso il figlio Carlo a causa dei bombardamenti. Cade così in un forte stato di depressione e di alcolismo. Una sera, completamente ubriaco, in preda alla rabbia abbatte un albero e intaglia un ciocco di legno creando così un bambino che, una volta animato dallo Spirito del Bosco, diventerà Pinocchio. Lui è però un burattino disobbediente, sfida le autorità e vuole fare come gli pare. Proprio a causa del suo comportamento viene ritenuto un pericolo dal Podestà, il capo fascista del paese, e viene messo di fronte a una scelta: combattere per la propria patria, a fianco dei fascisti, oppure esibirsi in tournée con Conte Volpe e la scimmia Spazzatura.

Le tipiche tinte cupe, oscure e fantastiche che contraddistinguono le pellicole di Del Toro emergono anche nella trasposizione di questa fiaba. Pinocchio fa quasi paura a vedersi, sfida la Morte, consapevole di avere la capacità di risorgere infinite volte. L’intera atmosfera è sopraffatta dalla presenza dei fascisti, che causano terrore e manipolano i pensieri della gente.

Nel suo percorso di crescita, Pinocchio, e con lui tanti altri personaggi, da burattino egoista giungerà a capire che forse è meglio avere una sola vita, ma viverla appieno, cercando di fare del bene. Nominato ai Golden Globes, Pinocchio di Guillermo del Toro, è una pellicola destinata a lasciare il segno, per la sua particolare rilettura della fiaba e per lo splendido messaggio che cerca di lanciare.

Recensione di Matilde Elisa Sala.


Boiling Point (Philip Barantini)

Presentato nel 2021 e uscito in Italia nel 2022, per questo meritevole di stare in questa lista, una delle pellicole migliori dell’anno. Boiling Point è un film sulla gestione del caos, sul sobbarcarsi troppo sulle spalle perché non si può fare altrimenti: un unico piano sequenza che incolla alla narrazione restituendo, coerentemente con la trama, il tumulto del lavorare in cucine rinomate.

Si racconta di una serata in uno stellato ristorante di Londra ed il protagonista, Andy Jones, capo chef, deve tenere tutto sotto controllo. Con la sua brigata, tra altri cuochi, la direttrice di sala, camerieri e vari altri dovrà gestire una pessima cena di continue difficoltà: animi tesi, troppe prenotazioni, un importante cuoco ex collega di Andy che si porta una rinomata critica culinaria, clienti arroganti e tanto altro mettendo ancora più in tensione animi già tesissimi.

Un’incredibile unico piano sequenza, scelta azzeccatissima per restituire il caos della gestione di un ristorante, dai fornelli alle interazioni tra i personaggi. Questi sono moltissimi, tra commensali, cuochi e camerieri in un film corale che delinea perfettamente gli animi di ogni personaggio, anche se ripreso per pochi istanti, regalando un quadro eterogeneo e chiaro di relazioni, amicizie e dissapori.

Tutto con una sceneggiatura senza sbavature che punta ad un climax di su e giù continui in cui gli alti diventano sempre più alti e i bassi cominciano a non essere abbastanza fino al Boiling Point, il punto di ebollizione in cui tutto esplode. Uno straordinario Stephen Graham che rende vivo un capo cuoco sfaccettato, garbato ma che si carica di troppo peso, un uomo non forte abbastanza quanto vorrebbe, un motore perfetto in una trama che funziona senza sbavature. Eccezionale.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Crimes Of The Future (David Cronenberg)

Il ritorno di uno dei più grandi cineasti e artisti di sempre nel terreno da lui fondato: il body horror. Di corpo e arte si tratta in quest’opera che tanto ha fatto parlare di sé, dividendo pubblico e critica. In un futuro non meglio precisato, l’essere umano non sente più dolore. Così molti si rifugiano nella chirurgia, considerata da alcuni nuova forma d’arte o nuovo sesso.

Saul Tenser e Caprice (Viggo Mortensen e Léa Seidoux) sono un duo artistico in cui il corpo di lui crea dei tumori che, in delle performance pubbliche, lei asporta con un macchinario apposito. In un contesto in cui l’essere umano sta cambiando ed in cui un gruppo di rivoltosi al potere è riuscito a modificarsi fino a mangiare la plastica. Esiste un ente statale con il compito di registrare le nuove varianze umane ed una polizia che cerca di tenerle a bada.

Un crime distopico, unico nel suo genere, che riflette sul ruolo dell’arte nell’essere umano, sul piacere di produrre arte e sul piacere in sé. Il tutto attraverso il corpo, da sempre tematica centrale del regista e qui ancora oggetto politico, ma anche soggetto creatore. Numerosi possono essere gli spunti di riflessione che questo è in grado di offrire. Certo un prodotto che può far storcere il naso a molti e sicuramente non il miglior Cronenberg. Si può anche affermare che non sia nulla di innovativo rispetto ai temi trattati dal regista; tuttavia, è possibile osservare una certa ripresa, se non summa, dello stile di un maestro.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Nope (Jordan Peele)

Un ranch che addestra cavalli per produzioni cinematografiche è scosso dall’arrivo di una imprecisata e pericolosa entità. Il padre del protagonista, OJ (Daniel Kaluuya), muore misteriosamente, per aiutare arriva la sorella di OJ, Emerald (Keke Palmer). Loro con altri cercheranno di affrontare, capire, osservare e far vedere l’essere che perseguita tutta la zona. Il film si chiede proprio se osservare sia la strada giusta da percorrere. Sfruttare qualcosa per far vedere, e così farsi vedere, è un’idea che porta conseguenze anche nefaste, responsabilità che possono ritorcessi in modi inaspettati.

Jordan Peele firma così la sua migliore pellicola, sorprendente nella sua capacità di intrattenere. Essa coinvolge lo spettatore in un climax ascendente continuo, con numerose riflessioni al suo interno che vanno in varie direzioni. Una di queste è proprio il cinema stesso, inteso come la cattura di immagini in movimento di qualsiasi forma. Indagando i suoi limiti, se quello che cattura non venga inevitabilmente storpiato, forse bastardizzato. Questo in un’epoca in cui tutti vogliono inquadrare, riprendere, catturare. La regia pulita e chiara di Jordan Peele è accompagnata da una messa in scena e una scenografia brillanti nel mettere quel poco che basta per stupire. Un horror fantascientifico atipico nell’avere personaggi così combattivi e proattivi.

Recensione di Luca Pacchiarini.


Men (Alex Garland)

Scritto e diretto da Alex Garland, grande sceneggiatore ma regista non sempre convincente, Men non è affatto un prodotto perfetto. Tuttavia lascerà un segno interessante ai suoi spettatori, sia per chi l’ha gradito sia per chi l’ha rifiutato. Si narra di Harper Marlowe che, dopo la morte dovuta ad un suicidio/incidente del marito, in seguito ad una furiosa litigata, si prende un periodo di vacanza in villeggiatura nella ridente campagna britannica.

Il suo soggiorno verrà continuamente interrotto da uomini, tutti con la stessa faccia, che maltrattano la ragazza. A cominciare da uno strano individuo nudo particolarmente legato alla natura.

L’angoscia è ciò che si prova guardando questo film. Timore, in universo surreale in cui la protagonista è inserita, tra bellissima vegetazione inquadrata con virtuosismo e momenti onirici dolorosi. Ma non si deve fare l’errore di credere che Men sia un film che mostra quanto gli uomini siano brutti e cattivi. Gli uomini con la stessa faccia rappresentano l’uomo che cerca di capire la donna, in modo errato.

Il film mostra come deve nascere e rinascere l’uomo per potersi avvicinare in modo tranquillo alla donna. Quest’ultima non deve essere passiva ma capire il gesto, protestando e ribellandosi alle vessazioni per potersi riavvicinare all’altro sesso senza stereotipizzarlo. Tuttavia, la pellicola risulta molto didascalica ed eccede nel palesare ciò che racconta, cadendo anche in stereotipi di genere, come quelli prodotti dalla A24. Nonostante ciò rimane un’operazione dalle soluzioni che stupiscono, riuscendo a disarmare lo spettatore, soprattutto nella messa in scena.

Recensione di Luca Pacchiarini.

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