Del: 8 Dicembre 2022 Di: Redazione Commenti: 0
Il paradosso di chi vorrebbe educare con l'umiliazione

«Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili […], umiliandosi anche. Evviva l’umiliazione, che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità». Queste le parole del Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, registrate e ascoltabili su YouTube sulla pagina del programma televisivo True Show.

Queste parole sono state pronunciate dal Ministro in occasione della sua partecipazione all’evento Italia Direzione Nord, svoltosi a Milano il 21 novembre e promosso dall’ associazione Amici delle Stelline e dall’istituto di ricerca Osservatorio Metropolitano di Milano. Nel suo intervento Valditara, facendo riferimento ad un grave episodio di bullismo, commentava, positivamente, la scelta del preside di una scuola superiore a Gallarate di sospendere un alunno per un anno; da questo commento continuava il suo discorso concentrandosi sugli episodi di violenza nelle aule scolastiche.

Il Ministro lamentava, soprattutto, i troppi casi di bullismo e sottolineava la necessità da parte delle istituzioni di intervenire in modo chiaro e fermo.

Valditara ha dichiarato che le istituzioni “non se ne lavano le mani, ma chiedono anche il coinvolgimento di quello che è essenziale nella repressione delle devianze, il controllo sociale, la stigmatizzazione pubblica“. Poi ha affermato: «Questo ragazzo ha compiuto un atto assolutamente da condannare, questo ragazzo ha sbagliato e nessuno, nessuno, è legittimato a dire che in fondo poteva avere le sue motivazioni». Deve essere mostrato a tutti, potremmo parafrasare, che sia stato commesso un atto inaccettabile, reso noto a tutti l’autore del gesto, mostrato come colpevole e mostrata la punizione.

Ed è a questo punto che il Ministro, riflettendo sull’effettiva utilità di una punizione come la sospensione, ha affermato:

Ma se ci si limita a sospendere per un anno, il rischio è che quel ragazzo vada poi a fare fuori dalla scuola altri atti di teppismo […]. Quel ragazzo deve essere seguito, quel ragazzo deve imparare che cosa significa la responsabilità, il senso del dovere[…]. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, […] lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi ancheevviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità. Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività.

Molte sono state le parole ed i commenti che hanno espresso sgomento e disaccordo nei confronti di queste affermazioni. Ma su che cosa si sono concentrate le critiche? Sulla necessità dell’intervento delle istituzioni (in questo caso il preside), sugli atti di violenza? Sulla necessità di responsabilizzare il ragazzo? Sul rischio che un alunno sospeso finisca per perdersi? No, assolutamente. Una riflessione su questi aspetti sarebbe stata condivisibile, mentre non lo è affatto quel metodo che è stato definito “educativo”, con il quale si è detto di voler responsabilizzare il ragazzo coinvolto nella vicenda.

Molte le testimonianze, come quella di Eraldo Affini, che sottolinea come l’umiliazione non si possa considerare uno strumento educativo.

Umiliare significa, come possiamo leggere dal dizionario Treccani, «mortificare qualcuno offendendone e ledendone la personalità e la dignità, così da causare in lui uno stato, giustificato o ingiustificato, di grave disagio, di avvilimento e vergogna». Sembra evidente, dunque, l’impossibilità di educare facendo leva su sensazioni estremamente negative come l’avvilimento e la vergogna.

Cercare di responsabilizzare attraverso il lavoro per la collettività potrebbe essere un’ottima idea, ma al fine di impararne l’importanza, di capire quanto le nostre azioni siano fondamentali e abbiano conseguenze per la nostra collettività, per i nostri “vicini”. Fare lavori socialmente utili per imparare a collaborare, insomma, mentre essere messi alla gogna nella pubblica piazza non può che insegnare al bullo che il modo di comunicare, il modo in cui la sua società vive, è la punizione umiliante. Non può che insegnargli che educare un altro significhi farlo sentire avvilito. Umiliare un bullo vorrebbe dire, solamente, farsi a propria volta bulli. In modo ancora più grave, però, perché proveniente da un educatore il cui compito sarebbe quello di insegnare.

Dietro le parole del Ministro, non ci sono la volontà di ferire, o cattiveria nei confronti di chi sbaglia, ma la terribile incosciente prospettiva di chi crede, e ha imparato, che l’educazione sia compagna di rigidità; un po’ come quel padre che non ammetteva obiezioni da cui Kafka è finito per scappare. Il libro che ne raccoglie la testimonianza si intitola, in modo eloquente, Come non educare i figli.

Ci troviamo in un’ottica di autoritarismo, come afferma Galli su Repubblica,

cioè «un comando che non vuole convincere ma abbattere ogni resistenza. Mentre l’autorevolezza nasce da una forza che vuole rendere forte anche l’altro, l’autoritarismo vuole abbassare l’altro, punirne l’insubordinazione. Ed è perciò espressione, mascherata, di debolezza».

Ciascun insegnante sa o dovrebbe sapere che è proprio quando un alunno sbaglia che si è chiamati a compiere il lavoro più importante, perché questi ha ancora più bisogno di essere accompagnato e stimolato. Non bisogna mai arrendersi, assecondare quel comportamento o dimostrare rabbia, e mai – questo sarebbe l’errore più grave – bisogna dimostrarsi incapaci di ascoltare. Non ci si deve mostrare in preda alla rabbia o incapaci di controllarsi e mai gli alunni dovranno percepire una rinuncia nei loro confronti, perché si finirebbe per perdere la possibilità di educare. Scegliere, poi, il loro stesso mezzo utilizzato per ferire, cioè l’umiliazione, non farebbe altro che legittimarlo.

Ogni momento deve essere per loro e mai portare a perdere stima per sé stessi: un bullo è già debole e ha trovato nella violenza un mezzo per mascherarlo ed avere riscatto. Non possiamo fare la stessa cosa.

Articolo di Giuseppe Coda

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