Già a partire dal ’78 il videogioco è rimasto al centro del mirino per quanto riguarda gli effetti negativi che potrebbe esercitare sulla psiche. Uno dei primi esempi era stato Death Race, in cui l’obiettivo era investire dei Gremlins, che poi si tramutavano in croci. In tempi più recenti, questi dubbi e accuse arrivarono al culmine molto probabilmente quando si scoprì che Eric Harris, uno dei due assassini che hanno compiuto il massacro alla Columbine, era un giocatore assiduo di Doom, e ne aveva anche realizzato delle mappe. Se da un lato abbiamo persone assolutamente convinte della pericolosità del medium, dall’altra abbiamo i suoi apologeti che ci dicono che il videogioco è un medium assolutamente sicuro e che asserire la sua pericolosità significa solo deresponsabilizzarsi in quanto educatori, poiché una semplice buona educazione può sventare qualsiasi influenza negativa da parte di un videogioco. Cerchiamo di capire dove si trovi la verità.
Il rapporto tra uomo e tecnologia è sempre stato al centro di molti dibattiti. Secondo quella che potremmo chiamare antropologia filosofica, l’aspetto tecnico è visto come costitutivo dell’uomo, e dunque si pensa che l’uomo abbia un aspetto naturalmente tecnico.
Gehlen per esempio, definiva l’uomo come essere tecnico. Il celebre filosofo della scienza Karl Popper dirà che così come l’evoluzione animale la possiamo vedere attraverso l’emergere di nuovi organi o di loro variazioni, così l’evoluzione umana procederebbe attraverso lo sviluppo di nuovi organi al di fuori del corpo. L’uomo in quest’ottica è sempre impegnato nella produzione di queste protesi del corpo.
Con queste premesse possiamo parlare brevemente del linguaggio, che è ed è stato probabilmente uno tra i più fondamentali dei nostri strumenti tecnologici, che ha come conseguenza anche lo sviluppo della consapevolezza del nostro sé, attraverso una proiezione di un segno, quello che è chiamato «io», permettendo uno sdoppiamento, una possibilità di osservarsi dall’esterno.
È facile capire dunque che quando iniziamo un’avventura in un videogioco e stiamo creando (o anche solo utilizzando) un nostro avatar, sarà lui che andrà a rappresentarci mentre giochiamo: non stiamo facendo un’operazione né scontata né banale. Ci stiamo sdoppiando proiettando qualcosa di noi in uno schermo, osservando le nostre azioni. È interessante notare a questo proposito come per William James l’«io» sia fondamentalmente una costruzione artificiale della nostra immaginazione, astratto dalla mente umana per elaborare sé stessa. Si potrebbe dire scherzando che William James abbia teorizzato il sé come una sorta di avatar. Ma andiamo per gradi. Cos’è l’avatar?
L’avatar è una rappresentazione grafica che serve all’utente per rappresentare la propria azione nei mondi virtuali.
Questo può avere due funzioni: relazione e agentiva. Quella relazionale ci interessa poco, si tratta delle immagini presenti nelle chat e nei social network. Gli avatar agentivi invece sono avatar che riproducono fisicamente delle azioni, gestite dall’utente attraverso comandi più o meno complessi, all’interno di un ambiente virtuale. Questi avatar dinamici e spesso dalla forma umanoide sono gli avatar su cui bisogna soffermarsi se si vuole fare un qualsiasi discorso sul ruolo che hanno gli avatar nei videogiochi. Alcuni studiosi che affrontano il mondo dei videogame da una prospettiva antropologica e sociologica parlano dell’avatar come una estensione della volontà del giocatore, soffermandosi sui personaggi più «vuoti» a livello identitario, i personaggi più liberi da rappresentare, lasciati anonimi apposta per lasciare più spazio all’immedesimazione del giocatore. L’avatar estensione è sicuramente quello che più tira in ballo la nostra costruzione identitaria e in cui mettiamo il nostro io più in gioco. Fatto sta che comunque l’avatar è quello che noi potremmo considerare una nostra protesi nel mondo digitale, è un nostro prolungamento.
Per capire l’influenza che possono avere i videogiochi sul nostro sé, va presa in considerazione la teoria di Gee del gioco identitario. Infatti, quando giochiamo abbiamo tre diverse identità: un’identità reale, come esseri umani che fruiscono un determinato videogioco; un’identità virtuale, come personaggi digitali all’interno di un mondo per l’appunto virtuale, e infine, un’identità proiettata, come proiezione dei propri valori e desideri all’interno del personaggio virtuale. Quindi abbiamo questo spazio di liminalità che funge da canale tra la nostra identità reale e quella digitale, in cui possiamo avvertire la nostra identità reale come separata da quella digitale, e in queste due identità si trovano interconnesse. Le asincronie che possono avvenire nella relazione tra noi e il nostro personaggio, ovvero talvolta possiamo sbagliare noi nell’esecuzione di un atto, talvolta il personaggio nel gioco può avere delle mancanze(gli manca un oggetto per passare allo stage successivo) o possiamo avere idee sbagliate su elementi del gioco (per esempio non pensiamo che i personaggi che ci appaiono sullo schermo sono nemici ma alla fine lo sono), attestano le differenze tra queste identità, così come il fatto che le cose possono andare storte da prospettive diverse.
L’avatar si potrebbe dunque considerare un simulacro, qualcosa su cui proiettiamo la nostra identità, qualcosa che sta al posto di qualcosa.
Un altro concetto per comprendere adeguatamente gli effetti che hanno sulla nostra individualità i videogiochi e quindi quanto effettivamente la nostra individualità può risultarne influenzata da ciò che accade in quel mondo virtuale sono i concetti di “immersività” e “senso di presenza”. L’immersività consiste nel fatto che quando un ambiente tecnologico riesce a catapultarci e a farci immergere all’interno di esso, noi ci sentiamo effettivamente presenti in esso. Da qui arriva il concetto di presenza collegato a sua volta al concetto di telepresenza provata dai teleoperatori, che sono macchine comandabili a distanza da teleoperatori.
Minsky aveva osservato che tali operatori venivano influenzati psicologicamente da questa esperienza e avevano l’impressione di trovarsi nel luogo in cui la macchina si trovava. Negli anni si sono succedute varie teorie di presenza. Tra le teorie più interessanti c’è quella di Riva che potremmo chiamare intenzionale; questa teoria ci dice che il vissuto della presenza in un ambiente segue l’impressione di poter attuare le proprie intenzioni nell’ambiente medesimo. Viene prima percepito l’ambiente e prima ancora di agire si sente di poter instaurare con esso una relazione nell’immediato. Il senso di presenza dunque viene prima di qualsiasi azione, e non è il semplice effetto collaterale dell’efficacia con l’interazione con l’ambiente virtuale come suggeriscono delle teorie del senso di presenza agentive, nè la selezione di uno stimolo come potrebbe suggerire una teoria gestaltica. Quindi è importante, se il senso di presenza può innestarsi subito, che il gioco sia immediato e intuitivo, in modo che possiamo immergerci ancora prima di aver compiuto ogni azione in esso. Ci sono poi molte variabili che possono supportare il senso di presenza: come la realisticità della grafica e degli ambienti, distrazioni nell’ambiente in cui il giocatore di trova, l’esperienza pregressa col medium videoludico e altri fattori.
Quindi da tutto ciò capiamo come il videogioco possa trasportarci in una realtà virtuale e farci vivere un’esperienza di certo non in maniera indifferente. A prescindere da come si instaura il senso di presenza e da quale scuola vogliamo seguire, l’esperienza videoludica non è qualcosa che viviamo puramente dall’esterno, ma c’è in ballo un continuo scambio tra una prospettiva interna ed esterna. L’ultimo concetto da affrontare prima di parlare più concretamente di come i videogiochi possono agire sulle nostre emozioni e sul nostro benessere psicofisico è il concetto di flow.
Questo non viene scoperto nell’ambito tecnologico, ma nasce come esperienza totale di concentrazione e dedizione in una data attività, che assorbe tutte le nostre risorse mentali.
Questa sensazione è fonte di soddisfazione profonda ed è collegato a un forte senso di benessere psicofisico. La capacità di poter rievocare il flow è in genere associata a un miglioramento della qualità della vita. Ora, i videogiochi sembrerebbero avere una certa capacità di rievocare il flow. Il videogioco è un’esperienza appagante, in grado di catturare la nostra attenzione e ci rende portatori di un forte controllo del mondo circostante, estremamente immersiva e capace di convergere su sé la nostra completa attenzione, dato questi motivi quando «videogiochiamo» spesso si distorce completamente la percezione soggettiva del tempo. La capacità del videogioco di dar seguito alle nostre azioni e di darci una sensazione di controllo sull’ambiente circostante è qualcosa di difficilmente sperimentabile nella nostra quotidianità. Il fatto che il videogioco sembri in grado di poter rievocare i momenti di flusso è indicatore del fatto che il videogioco, grazie alla sua alta offerta in termini di immersività che genera un potenziale effetto di presenza, può avere in qualche misura effetti positivi in termini di effetti sulla psiche. Quindi da qui possiamo capire lo stretto legame che hanno i videogiochi con le nostre emozioni e col nostro stato psicofisico.
Nonostante le molteplici possibilità che il videogioco può aprire o le diverse funzioni che può stimolare nella nostra psiche, esistono dei rischi e degli effetti negativi su cui non possiamo sorvolare. Il problema più invasivo in questo periodo riguarda la dipendenza e l’abuso. Esistono dei tipi di gioco che spingono di più verso un comportamento che spesso ricade in una delle due situazioni prima citate. Questi si chiamano MMORPG, Massively Multiplayer Online Role-Playing games, cioè giochi di ruolo online di massa.
Un esempio è Word of Warcraft, che conta 100 milioni di utenti l’anno. Qui il giocatore deve compiere gesti estremamente ripetitivi per guadagnare punti e, una volta raggiunto l’obiettivo prestabilito, una ricompensa virtuale andrà ad innescare la scarica di dopamina che spingerà a continuare le azioni. In questa tipologia di gioco, infatti, sembra non esista mai una fine, non vedremo mai “the end” comparire a sfondo nero, prima di spegnere la console, perché in teoria dovrebbe essere il giocatore a decidere quando smettere. In pratica molte persone finiscono in una spirale di dipendenza che le spinge a giocare ancora e ancora. Ma ora arriviamo al nocciolo della questione: essere dei giocatori porta ad essere persone più violente?
Ad oggi non esistono studi che dimostrino una correlazione tra i due elementi. Per quanto dalla nascita dei primi giochi ci sono state persone che volevano dimostrare la pericolosità di un mezzo che metteva in scena situazioni violente, la relazione non sussiste. Al contrario, ricerche più recenti dimostrano il contrario, ossia come un videogioco violento possa, in realtà, ridurre l’aggressività di chi lo utilizza. Il ruolo sarebbe quello della catarsi, un termine inventato dai greci antichi per indicare un rituale di purificazione, con cui l’anima si libererebbe dalle passioni irrazionali. Nel nostro caso, partecipare ad un gioco che implichi lo sfogo di violenza non indica che il giocatore copierà quei gesti nella vita reale, anzi, è più probabile che non li attui mai, visto che ha già sfogato la propria indole aggressiva nei momenti di gioco.
Dare per scontato che ci sia una violenza relativa ai videogames, però, indica una scarsa conoscenza di fondo dell’argomento. Esistono moltissime tipologie di gioco in cui la violenza è minima o inesistente, ad esempio Tetris o Animal Crossing.
Capiamo quindi come le ricerche che volevano trovare la connessione fatidica fra gioco e aggressività, si basassero su un pregiudizio, ossia che i videogiochi, in fondo, fossero un po’ tutti uguali. Ad oggi sappiamo bene come Animal Crossing non sia la stessa cosa di uno «sparatutto» come Call of Duty, di conseguenza anche le ricerche mosse in questo campo si stanno sempre più specializzando (ed informando) su come sia davvero variegata l’industria del mondo videoludico.
Nonostante le critiche spesso mosse a questo medium, abbiamo molti studi che dimostrano quanto, in realtà, essere dei videogiocatori porti ad un affinamento di capacità. In primo luogo vi sono le capacità ricettive, come la percezione dello spazio colmo di distrazioni. Se ci si approccia per la prima volta ad un gioco in cui vi sono molte strade da percorrere per raggiungere gli obiettivi, si rimarrà probabilmente confusi dalla quantità di azioni che si possono compiere. Da cosa comincio? Un giocatore esperto avrebbe pochi dubbi. Ovviamente questa skill particolare è utile nei videogiochi, ma anche in altri campi della vita. Prendiamo come esempio la guida, quante volte siamo al volante e allo stesso tempo dobbiamo ricordare di mettere la freccia, fare attenzione ai pedoni, frenare, accelerare, controllare i limiti di velocità, ecc. Esistono molte situazioni in cui può tornare utile essere in grado di non farsi prendere dal panico in un mare di distrazioni.
Altre capacità non irrilevanti riguardano l’utilizzo fisico del mezzo. Saper coordinare la percezione visiva con i movimenti delle mani non è così scontato, basti pensare che esistono videogiochi pensati per i chirurghi, che permettono di fare pratica a distanza prima di entrare in sala operatoria, sfruttando delle simulazioni di operazioni. Secondo uno studio dell’Università di Toronto, infatti, i chirurghi che sono anche videogiocatori, in media hanno abilità manuali migliori rispetto ai compagni.
Trattiamo ora di un elemento che, in genere, viene screditato: la socialità. Pensando ad un adolescente che gioca spesso, probabilmente immaginiamo qualcuno che rimane chiuso in casa molte ore, senza amici, senza una vita sociale e che si rifugia in un mondo altro per compensare le mancanze del proprio. Quest’idea non tiene assolutamente conto delle possibilità che offrono i giochi online, in cui si possono creare reti di conoscenze, che possono durare mesi, anni. Per quanto dall’esterno sembri strano avere amicizie virtuali, sappiamo che è all’ordine del giorno per chi utilizza questo tipo di games. Rimandiamo, in conclusione, a dei dati che conosciamo molto bene. Nel 2020, anno di inizio della pandemia da Covid-19, l’industria dei videogiochi italiana ha avuto un aumento del 21,9% per quanto riguarda gli acquisti e, pensate un po’, il 50% di chi utilizzava i videogiochi in questo periodo lo faceva per rimanere in contatto con gli amici.
Fonti:
Luca Argenton e Stefano Triberti, Psicologia dei videogiochi. Come i mondi virtuali influenzano mente e comportamento
Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione
Francesco Allinovi- Game start! Strumenti per comprendere i videogiochi
Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione
Francesco Allinovi, Game start! Strumenti per comprendere i videogiochi