Del: 17 Gennaio 2023 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 1
Greta Thunberg e Andrew Tate, perché non blastare

Come si è chiuso il 2022? Per alcune persone bene, per altre meno bene, per Andrew Tate malissimo.

L’ex-kickboxer ha infatti ingaggiato, fra il 27 e il 28 dicembre, un provocatorio botta e risposta su Twitter con l’attivista per il clima Greta Thunberg, che è stata decretata “vincitrice” a giudizio (bene o male unanime) dei commentatori sui social network. Ad apparente coronamento della sua sconfitta, il giorno dopo Tate è stato anche arrestato in Romania nell’ambito di un’indagine sul traffico di esseri umani.

Facciamo un passo indietro.

Andrew Tate, oltre che atleta, è un ex-personaggio televisivo piuttosto controverso (nel 2016 è stato allontanato dal Grande Fratello per via di un video in cui appariva mentre frustava una donna).
Le sue teorie machiste e misogine, sincere o volutamente provocatorie, hanno trovato sempre più ampio spazio sul web, a tal punto che nel 2017 Twitter cancellò permanentemente il suo account @Cobratate, a seguito dell’affermazione per cui “Se ti metti nella posizione di essere violentata, devi assumerti alcune responsabilità. Non sto dicendo che vada bene che tu sia stata violentata”.

Dopo il ban di altri due account Twitter che teoricamente non avrebbe potuto creare (@ofWudan nel 2021 e @MasterfulPo a inizio 2022, quest’ultimo persino verificato), Tate è stato allontanato anche da Facebook, Instagram e TikTok, la scorsa estate.
A seguito del passaggio di Twitter ad Elon Musk, tuttavia, @Cobratate è stato reintegrato il 18 novembre insieme ad altri personaggi pubblici e ha subito twittato che “perdere, semplicemente, non è un’opzione”.

A questo punto arriviamo allo scambio con Greta Thunberg: il 27 dicembre Tate si vanta delle emissioni prodotte dalle sue Bugatti e Ferrari, e chiede all’attivista di fargli sapere a quale indirizzo e-mail possa inviare la lista completa delle 33 auto.
Thunberg risponde qualche ora dopo con un indirizzo ironico, smalldickenergy@getalife.com.

La mattina del 28 dicembre tate twitta un video in cui ribalta la frecciatina (asserendo che l’attivista si sia detta da sola di avere un pene piccolo, in sostanza “chi lo dice sa di esserlo”) e si fa consegnare delle pizze in cartoni esplicitamente “non riciclabili”.

Il 29 dicembre viene arrestato dalle forze dell’ordine romene durante un procedimento penale che coinvolge indagini sul traffico di esseri umani, e ci vuole poco perché la notizia venga fatta discendere in modo causale dalla lite con Greta Thunberg: nello specifico, a sostenere che l’ubicazione di Tate sia stata individuata o confermata grazie alla catena di pizzerie riconoscibile nel video, è fra gli altri l’avvocata e attivista Alejandra Caraballo, ma l’indomani paiono ironicamente sostenerlo anche i tweet della stessa Thunberg (“Ecco che cosa succede a non riciclare i cartoni della pizza”) e della catena Jerry’s Pizza.

Non solo: a circolare molto è anche la notizia per cui responsabile dell’arresto di Andrew Tate sarebbe un’agenzia europea chiamata, per ironia della sorte, GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings).

A dire il vero, la posizione geografica di Tate era già nota da tempo alle autorità (e lui nemmeno la nascondeva più di tanto) e non è stata solo la pizza a confermarla, come ha riferito il 30 dicembre ad AFP una portavoce dell’agenzia investigativa romena DIICOT.
Per quanto riguarda l’altra GRETA, il suo legame con l’arresto è piuttosto labile e si limita a un report del 2021 in cui esortava la Romania ad efficientare il contrasto al traffico di esseri umani.

Il problema del plauso acritico ai dissing di Thunberg nei confronti di Tate, però, è più profondo di queste mere incorrettezze (che comunque non sono ininfluenti, peggiorano il quadro).

Il punto è che Tate non ha solo un aspetto opinabile, ma vari: i suoi messaggi pericolosamente sessisti; il suo radicale negazionismo del cambiamento climatico; le modalità da troll (qualcuno che su Internet lancia esche provocatorie per creare discussioni accese) e, se confermate, le sue responsabilità nell’indagine per traffico di esseri umani.

Confonderli non solo è utilitaristicamente inefficace, ma è proprio eticamente sbagliato. Ad esempio, anche se fosse vera la notizia dei cartoni della pizza, non avrebbe senso mettere sullo stesso piano gli eventuali crimini di Tate e le sue idee sul clima, come invece fa il tweet di Thunberg (certo, iperbolicamente), o come lasciano sottintendere alcuni titoli un po’ clickbait (da cui sembrerebbe che Tate sia stato arrestato per gli insulti all’attivista).

Non solo: si può essere d’accordo con la posizione di Thunberg nel dibattito sul clima, pur criticando i suoi modi. Questi ultimi, infatti, sono stati de facto gli stessi di Tate: gara per chi ha l’ultima parola, battutine, attacchi ad hominem di poca pertinenza del tipo get a life, “fatti una vita”.
O come il riferimento alla small dick energy, che effettivamente non va letto in senso letterale, ma come ribaltamento della big dick energy, espressione che indica un atteggiamento sicuro di sé e “cazzuto”, un po’ come “avere le palle” ma con meno spavalderia celodurista. Questo basta però ad assolvere l’uso di questa locuzione da ogni traccia di bodyshaming e bassezza di linguaggio?

Conferma del tenore di queste argomentazioni sono le reazioni sui social, che tendenzialmente si assestavano su un “Greta ha distrutto Tate”, in inglese she owned him o sick burn. Bene o male le parole che si usavano quando a dieci anni qualcuno “spegneva”, “asfaltava” o “stroncava” l’amichetto con una frase ad effetto, di pertinenza spesso volgare.

Non sembra, insomma, così encomiabile abbassarsi al trolling di Tate.

Queste risposte taglienti (in inglese sassy comebacks) sono una assomigliano alla modalità del blasting (di cui è un ottimo esempio anche il profilo Instagram di Enrico Mentana), alcuni dicono che Thunberg abbia “blastato” Tate, come sostiene l’account Instagram eloquentemente chiamato @blastometro.

Dal significato originario di “sparare, far esplodere, distruggere”, il verbo inglese to blast è passato a indicare una critica o un insulto distruttivo.
Più lapidario del dissing da rapper, più unilaterale di un beef (ciò che prima si chiamava querelle), “blastare” è un modo per rimarcare la propria superiorità intellettuale zittendo qualcuno come ignorante.

Se questo non-modo di argomentare è biasimevole per chiunque, il blasting peggiora quando ad impiegarlo sono figure con un ruolo preciso: quello del divulgatore. Fra questi ultimi, Roberto Burioni è blaster per antonomasia, forse più di Mentana.

Anche in questo caso, il blasting da parte di un divulgatore è inefficace ma anche sbagliato: quali sono infatti scopo ed effetto dell’azione? Qual è il target di riferimento che possa applaudire il blastatore, se non il pubblico che già lo segue, già condivide le sue idee e sta dalla sua parte?
A che cosa serve tutto questo, se non ad esacerbare la polarizzazione fra due schieramenti e l’incomunicabilità stagna?

Se il blastato ignorava in buona fede, non si può fargliene una colpa. Se provocava in mala fede, chi è il divulgatore per assumersi il ruolo di punitore?
In ogni caso, nella quasi totalità dei casi chi sostiene una posizione falsa e antiscientifica non lo fa giusto per, sapendo che è falsa, perché venera totemicamente il Male come un villain Disney o vuole vedere il mondo bruciare come Joker.
Lo fa perché convinto di avere la verità in mano e la scienza in pugno, un atteggiamento non dissimile da un altro diametralmente opposto ma speculare, la convinzione in posizioni scientifiche non come fiducia nel metodo (comunitario e fondato sulla peer review) ma come fede aprioristica.

Per quanto da secoli la scienza non ragioni più per auctoritates ed ipse dixit, si dice spesso che “la scienza non è democratica”: l’ha detto Burioni, l’ha detto Piero Angela. Questa frase difende il meccanismo della peer review certo contro l’ipse dixit, ma soprattutto contro il relativismo qualunquista.
Ma (e né Burioni né Angela lo negano) l’oggettività del metodo non è inconciliabile con un atteggiamento democratico, come ricordava un altro divulgatore noto con il nome di Barbascura X: la scienza necessita di strumenti critici non comuni, ma questi devono essere almeno in potenza accessibili a chiunque voglia approcciarvisi.

E fornire gli strumenti sarebbe proprio il compito del divulgatore (qualora non volesse solo donare un pesce, ma insegnare a pescare) – che senso ha che si limiti a deridere dall’alto in basso chi non ce li ha?


Nel Saggiatore e nella Lettera a Castelli, Galileo dice che il libro della natura è scritto nella lingua della matematica: qual è il compito dell’interprete di una lingua? Tradurla, o ancora meglio insegnarla, non irridere chi non la conosce.

Si badi al salto logico: l’ultimo paragrafo esula dal dibattito sulla democraticità della scienza e pertiene invece alla democraticità della sua comunicazione. Non si vuole qui asserire che la comunità scientifica sia alla stregua di un’ortodossia oscurantista e religiosa, ma che rischi di venire divulgata come tale. Il che equivale, etimologicamente, a non divulgarla.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.

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