Del: 22 Febbraio 2023 Di: Giulia Riva Commenti: 0
Festival di Sanremo, quando la narrazione cambia

«Vedere un fiume di persone dai 5 agli 80 anni che andava per strada ti fa capire che la condivisione del pubblico è la forza del Festival. La potenza della gente dà forza contro qualsiasi polemica».

Questo è quanto affermato da Amadeus (pseudonimo di Amedeo Sebastiani), conduttore per il quarto anno consecutivo dello storico Festival di Sanremo, durante la conferenza stampa di chiusura. «Se mi mandano via me ne vado. Se chiunque dovesse dirmi che il mio mandato finisce qua, ne prenderei atto conservando 4 anni bellissimi per tutta la mia vita, con il piacere di aver fatto quello che desideravo fare». E ancora: «[…] devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee».

Ma perché si è resa necessaria questa difesa, a fronte di un Festival che ha sfondato i record di ascolti dalla prima serata – dopo la quale il direttore Stefano Coletta aveva parlato di un «dato straordinario, che ha lasciato sorpresi anche noi» – fino all’attesissima finale?

Non ci sono dubbi che la 73esima edizione del Festival sia stata, prima, durante e dopo la sua messa in onda, al centro di un animato dibattito tra le varie anime della politica italiana, dalla destra al centrosinistra.

A cominciare dal contestatissimo videomessaggio del presidente ucraino Zelensky, programmato per la serata finale, e ridottosi, in seguito a pressioni congiunte (da quelle del ministro Salvini a quelle dell’ex premier Giuseppe Conte, da quelle di Carlo Calenda a quelle dell’ex 5stelle Alessandro Di Battista), ad un breve comunicato scritto, letto dallo stesso Amadeus intorno alle 2.13 del mattino (ne abbiamo parlato qui).

A sottolineare che il Festival dovrebbe configurarsi solo ed esclusivamente quale manifestazione musicale, senza includere messaggi politici di sorta, anche la ministra del Turismo Daniela Santanchè: «Da ministro voglio salvare il Festival di Sanremo se fosse come deve essere il Festival della canzone italiana. Ci guardano in moltissimi Stati, quindi io non ne voglio parlare male ma qualcuno si deve fare un esame di coscienza: che il Festival sia comunista non è una novità». E il ministro delle Infrastrutture Salvini aggiunge: «sicuramente una riflessione sulla gestione Rai nel suo complesso andrà fatta».

Nell’occhio del ciclone l’ormai celebre Free style del rapper Fedez, brano dal contenuto provocatorio che chiama in causa la classe dirigente italiana, dalla deputata FdI Maddalena Morgante (che in Parlamento aveva contestato la presenza di Rosa Chemical al Festival) alla ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia Eugenia Roccella, dichiaratamente antiabortista; fino al viceministro delle Infrastrutture Galeazzo Bignami, noto per la foto in cui compare travestito da nazista. Foto che lo stesso Fedez ha scelto di strappare durante la diretta.

Sebbene il Direttore Coletta abbia sottolineato che «le esternazioni politiche fanno parte della natura di una kermesse così importante», ciò che è stato ancor più ampiamente bersagliato è piuttosto una specifica espressione culturale che, come del resto lo stesso Amadeus precisa, garantisce libertà agli artisti.

La conferma giunge con la cristallina affermazione di Gianmarco Mazzi, sottosegretario alla Cultura e deputato di Fratelli d’Italia, che dichiara: «Cambiare i vertici della Rai? Non dipende da me o solamente da me ma penso che lo faremo. È giusto cambiare la narrazione del Paese». E precisa: «Io non banalizzerei parlando di spoils system ma di modelli culturali che cambiano, quando una forza politica che è anche espressione di un’area culturale arriva al governo del Paese per volontà dei cittadini può esprimere dei propri dirigenti che proseguano un cammino facendo una loro proposta. La trovo la cosa più naturale del mondo».

Ma proprio di spoils system si tratta: ossia della possibilità per il governo che entra in carica di sostituire determinati funzionari pubblici con persone più in linea con la propria ideologia politica.

Tale possibilità è stata sancita in Italia da una delle leggi della Riforma Bassanini (1997-1999) e si applica ai dirigenti ministeriali e alle agenzie poste sotto il controllo dei ministeri, come l’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) o appunto la Rai.

Società per azioni partecipata al 99,56% dal ministero dell’Economia (e per il restante 0,44% dalla SIAE), la Radiotelevisione italiana è dunque inevitabilmente influenzata dalla politica: lo stesso Consiglio di amministrazione si compone di due membri eletti dalla Camera, due eletti dal Senato, due designati dal Consiglio dei ministri (su proposta del ministro dell’Economia) e solo uno eletto dall’assemblea dei dipendenti Rai. Dopo la riforma della Rai del 1975 è stata inoltre istituita la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, con l’obiettivo di rendere il servizio espressione di diverse tendenze politiche, sociali e culturali.

Alla luce della conclamata pratica dello spoils system è comunque lecito chiedersi quanto la garanzia di «un’informazione completa e imparziale» e di «apertura alle diverse opinioni» possa realmente sussistere. Perché se già risulta problematico il controllo, più o meno esplicito, di alcuni dei principali canali di informazione da parte dello Stato, ancor più grave sarebbe che il governo (che con lo Stato non coincide) si arrogasse il diritto di censurare la libertà di opinione e di espressione, di bandire tutto ciò che fosse in qualche modo opposto o anche solo estraneo alla propria ideologia di riferimento.

Ancor più in un contesto in cui una retorica dilagante tende a prevalere sui fatti, e, per quanto si possa parlare di libertà di stampa (seppur in calo), risulta sempre più difficile operare una consapevole selezione delle notizie, rifuggire il sensazionalismo e applicare uno spirito critico che troppo poco e troppo di rado trova spazio nei percorsi di istruzione e formazione. In difficoltà di fronte ad una mole di informazioni in costante aumento, ci sentiamo dire, senza vergogna né esitazioni, che ora «la narrazione deve cambiare».

Siamo quindi immersi in una narrazione? O lo saremo presto?

Chi dichiara la volontà di cambiare tale narrazione lo fa peraltro in nome della necessità e del diritto della nuova classe dirigente, cioè della fazione vincente, di imporre la propria egemonia culturale, in quanto rappresentante di quella “maggioranza” che con il proprio voto ne ha sancito democraticamente l’ascesa politica; maggioranza che avrebbe a propria volta il diritto di vedersi rappresentata a pieno, in ogni contesto, compreso quello dello spettacolo e dell’informazione. Ma tale posizione presenta due enormi problematiche.

In primo luogo, la coalizione di governo (l’attuale così come le precedenti) non rappresenta l’assoluta maggioranza dei cittadini, a maggior ragione a fronte di un astensionismo in costante crescita: solo il 63,9% degli aventi diritto ha preso parte alle scorse elezioni parlamentari del settembre 2022.

In secondo luogo, se anche il governo dovesse incarnare la maggioranza o addirittura la quasi totalità della popolazione, non sarebbe comunque giustificabile la rimozione della più piccola sfumatura culturale e di pensiero, fosse anche propria di un singolo essere umano. Da rimuovere sarebbero, piuttosto, gli orientamenti discriminatori di ogni genere (di cui troppo spesso la politica si fa latrice), in una Repubblica che dovrebbe fondarsi sulla democrazia, sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla tutela dei diritti di ognuno.

Per concludere, forse le narrazioni fanno inevitabilmente parte della nostra esistenza: come osserva lo storico e scrittore Yuval Noah Harari l’essere umano è una creatura narrante, che per sopravvivere ha raccontato e si è raccontata una molteplicità di storie, alcune dannose, altre utili, tutte più o meno false.

È quando si iniziano a narrare l’odio, l’intolleranza, che si apre la porta ad orrori inimmaginabili o che si erano creduti, troppo presto, dimenticati. Meglio, allora, «sbagliare con le proprie idee».

Giulia Riva
Laureata in Storia, sto proseguendo i miei studi in Scienze Politiche, perché amo trovare nel passato le radici di oggi. Mi appassionano la politica e l’attualità, la buona letteratura e ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Scrivere per professione è il mio sogno nel cassetto.

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