Del: 28 Febbraio 2023 Di: Giulia Scolari Commenti: 0

Partiamo col chiarire ogni dubbio: La legge di Lidia Poët ci è piaciuta. Uscita su Netflix lo scorso 15 febbraio, la serie è prodotta da Groenlandia – casa di produzione già nota agli esperti del settore per le sue ambizioni internazionali – e girata da Letizia Lamartire e Matteo Rovere (che ne ha impostato le ultime due puntate).

La Torino di fine Ottocento in cui si svolgono gli eventi è una città misteriosa, dall’atmosfera gotica e minacciosa. È una città viva, con un cuore pulsante e rivoluzionario che solo la capitale di un regno appena unificato può avere: i personaggi che affiancano i protagonisti provengono dalle più svariate classi sociali, sono con o contro il neonato sistema e dipingono un’Italia che è spesso taciuta e dimenticata, ma che è senza dubbio esistita. 

Per tutti questi motivi è un peccato che proprio Lidia Poët (interpretata da Matilda De Angelis) sia stata quasi completamente riscritta. L’avvocata Poët è davvero esistita, è stata la prima donna iscritta all’albo, ma purtroppo non è stata la prima avvocata nel senso moderno del termine:

in pochi casi ha potuto esercitare la sua professione, e quando è stato permesso alle donne di essere riconosciute dall’albo come praticanti della giurisprudenza era ormai molto vecchia e non ne ha potuto godere a pieno.

Poët proveniva davvero da una famiglia ricca, era sorella di un avvocato di cui ha condiviso la passione per la giurisprudenza (nella serie, interpretato da Pier Luigi Pasino). Godeva di grande supporto da parte della famiglia, tant’è che non si sposò mai, ma rimase per tutta la vita nella storica casa di Pinerolo insieme al fratello. Entrambi sono ricordati dai parenti come studiosi e lavoratori che hanno dedicato le loro vite alla professione e allo studio della giurisprudenza, ben diversi dunque dai due personaggi che vediamo su Netflix. 

Soprattutto, Poët era davvero una donna “avventurosa”, come la ricorda la pronipote Marilena Jahier nell’intervista rilasciata a La Stampa. La possibilità di studiare le era stata concessa non solo grazie alla posizione illustre della famiglia, ma anche grazie ad un tassello dell’identità della famiglia Poët che è stato tralasciato completamente dalla rappresentazione cinematografica: l’appartenenza alla fede valdese.
Ferventi sostenitori dell’istruzione come mezzo per emanciparsi, i valdesi erano soliti mandare i figli in Svizzera per imparare altre lingue e dare grande importanza agli studi universitari. Seguendo l’esempio del fratello, Lidia si iscrisse a giurisprudenza all’età di 28 anni, nel 1878, e si laureò con una tesi intitolata Studio sulla condizione della donna rispetto al diritto costituzionale ed al diritto amministrativo nelle elezioni

Come scritto da Ilaria Iannuzzi e Pasquale Tammaro all’interno del loro volume Lidia Poët. La prima avvocata (che abbiamo recensito qui), Lidia

con una massiccia dose di senso pratico, [nella tesi] affermava che le ragioni della condizione di subalternità della donna, più che nella chimica, erano da ricercare nell’educazione. E per il processo e l’armonia della società, auspicava che finalmente venissero riconosciuti uguali a tutti, donne e uomini.

Ottenne la laurea a pieni voti e ovviamente la notizia apparì su tutti i giornali fin da subito: Iannuzzi e Tammaro riportano scorci degli articoli apparsi su testate come il Corriere della Sera e la Gazzetta di Mondovì, donando al lettore fin da subito un quadro ben chiaro di Lidia Poët, ben diverso da quello di “sorella pazza”. Ci ha fatto sorridere infatti il personaggio di Jacopo Barberis (Eduardo Scarpetta), lo scrittore della Gazzetta che pubblica un articolo a sostegno della protagonista, perché sembra essere stato uno di quei casi in cui a forza di inventare ci si avvicina involontariamente al vero. 

Svolti i due anni di pratica presso l’ufficio di Cesare Bertea (una personalità pubblica nota e stimata, Deputato alla Camera e futuro Senatore del Regno), Poët si presentò a Torino a metà maggio del 1883 per svolgere l’esame per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Superò anch’esso a pieni voti e procedette dunque a presentare domanda per iscriversi all’albo degli avvocati di Torino: ci fu una discussione che si protrasse per giorni e che derivò nella sua iscrizione e nella rassegna delle dimissioni di alcuni membri del Consiglio.

La fama di Poët non fece che aumentare: alle voci più importanti della stampa italiana se ne unirono numerose provenienti dall’estero (Englishwoman’s Review, The Union Signal, Demorest’s Monthly Magazine). Nell’agosto dello stesso anno il sostituto Procuratore del Re, Giuseppe Magenta, presentò ricorso alla Corte d’appello di Torino, la neoavvocata presentò un controricorso (scritto di suo pugno) e si preparò ad affrontare la causa. Il 14 novembre la sentenza della Corte decretò che:

L’avvocheria [era] un ufficio esercibile soltanto dai maschi e nel quale non dovevano immischiarsi le femmine. 

Anche a questa decisione venne fatto ricorso e sempre grazie all’incredibilmente completa ricerca di Iannuzzi e Tammaro è anche possibile leggere un’intervista che il Corriere della Sera ha pubblicato, in cui emerge un’immagine chiara di Poët come di una donna intenzionata a lottare per la sua causa e per il futuro di tutte le altre donne come lei. La causa di Poët rimase aperta fino ai primi anni del Novecento, rendendola una delle personalità più note del paese, soprattutto all’estero.

Ormai nota ovunque frequentò le personalità e gli scrittori più famosi di quel tempo. A Parigi conobbe Paul Verlain, Victor Hugo e Guy de Maupassant e si conquistò pure la stima del Presidente della Repubblica Félix Faure. Per anni intrattenne una corrispondenza intima con l’ormai anziano Edmondo De Amicis e godeva anche della considerazione del primo ministro greco Eleutherios Venizelos. Non si sposò mai e non ebbe figli, ma seguirla in tutti i suoi viaggi era la nipote prediletta, Anna Rostan.”

Per tutta la vita, Poët si dedicò alla lotta per il suffragio universale e prestò anche servizio alla Croce Rossa durante la Prima Guerra Mondiale. 

Insomma, tutto questo per porre una sola domanda:

era necessario lo stravolgimento della sua persona per creare una rappresentazione originale e moderna? Non erano forse moderne le sue battaglie? Non erano interessanti le relazioni che aveva effettivamente conquistato nella sua vita? 

A chi controbatte che l’importante è veder finalmente al centro del dibattito una figura altrimenti dimenticata, si risponde facilmente: il gioco del passaparola è un gioco pericoloso. Le fonti orali che alle elementari ci vengono insegnate come frottole di poco conto non sono solo una peculiarità di Erodoto e dei Fratelli Grimm, ma un rischio nel quale incorriamo sempre. Il mestiere del creatore di cultura – intesa come prodotto di ogni tipo, dal libro, al film, alla canzone – comprende sì una dose di arte e creatività, ma anche una dose di responsabilità che stiamo sorvolando troppo spesso con superficialità. 

Se da un lato si ottiene più successo pubblicando La Canzone di Achille che non scrivendo un pamphlet sulla reale condizione degli uomini greci e la vacuità delle etichette odierne in una società fluida come quella delle poleis, è pur vero che ad oggi possiamo godere di una fortissima base critica e teorica a riguardo. La conoscenza reale non rischia dunque di essere completamente soppiantata dai deliri di un’americana ignorante, perché basta una semplice ricerca su Google per far crollare ogni castello. Quando si tratta invece di figure – chissà perché poi sempre donne – dimenticate e senza più la possibilità di avere voce in capitolo sull’utilizzo della loro immagine, il saggio artistico di un artista o la minestra riscaldata del marketing sociale di Netflix possono causare un grande danno.

Giocare con la storia quando questa storia è stata da tempo dimenticata significa rischiare di plasmare le vite delle persone secondo i nostri moderni ed egoistici comodi, significa strumentalizzare le loro battaglie e accettare che vengano tramandate solo secondo i nostri canoni. Stiamo facendo lo stesso gioco della censura Medievale, dei traduttori al Vaticano che manipolano la fluidità greca per creare l’immagine di una donna inferiore e lo stesso gioco delle donne chiamate per nome perché tutte sorelle e cugine della prima premier. 

È un gioco pericoloso anche quando politicamente corretto, anzi forse di più, perché fatto in questo modo immancabilmente ci piace. 

Il nostro monito è dunque quello di accompagnare all’effimera serotonina che deriva della serie una ricerca in più su Google o una lettura in più, soprattutto per chi magari può vedere in Lidia Poët una figura a cui ispirarsi.

Giulia Scolari
Scienziata delle merendine, chi ha detto che la matematica non è un’opinione non mi ha mai conosciuta. Scrivo di quello che mi piace perché resti così e di quello che odio sperando che cambi.

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