
I Måneskin sono un prodotto. Niente di male, figuriamoci. Nessuno si scandalizza se qualcuno guadagna dall’arte, è dall’epoca del mecenatismo che i musicisti vengono pagati per fare musica. Ma il problema dei Måneskin non è essere dei musicisti che fanno musica che poi è anche un prodotto, bensì essere loro stessi un prodotto. La loro musica è semplicemente il loro specchio.
Consciamente o inconsciamente, da quella sera di Sanremo in cui la loro carriera ha iniziato a prendere la piega che ha preso ora, hanno capito cosa voleva da loro il pubblico, e non solo, hanno capito anche che cosa il pubblico voleva che fossero, e lo sono diventati.
Quella sera a Sanremo i Måneskin sono diventati i nuovi rocker, l’alternativa alla trap, i bei ragazzi impossibili che vivono al limite, che si vestono da alternativi.
Poco importa che Zitti e Buoni fosse musicalmente un pezzo estremamente convenzionale, senza alcuno spunto interessante e che non aggiunge praticamente nulla alla grammatica del rock. Il gruppo romano si è reso conto che, qualunque cosa essi avessero fatto, aveva funzionato, e da quel giorno sono diventati quella cosa.
Quelli che a X Factor sembravano ragazzini appena usciti da un qualsiasi liceo classico di provincia, ora girano come la classica band glam alternativa e ribelle. Interessante notare come a un cambiamento radicale nell’estetica si accompagni un cambiamento trascurabile a livello compositivo.
Ma l’anticonformismo, quando si limita al livello estetico, è tranquillamente riassorbibile dal sistema, dà solo la parvenza di un anticonformismo.
Tutt’al più quando questo anticonformismo è la cosa più vecchia del mondo. La cultura rock è permeata da questi atteggiamenti provocatori e ribelli, ed essendo diventati fenomeni di costume sono assolutamente innocui per la società, ma probabilmente non per le loro tasche.
È assolutamente lecito che si possano trovare piacevoli i pezzi dei Måneskin, perché la musica di consumo va benissimo – d’altronde quando si è in macchina con gli amici non si ha certo voglia, giustamente, di ascoltarsi Alban Berg, ma di rilassarsi con qualcosa di leggero. Bisogna capire, però, come se la cavano con un disco di ben un’ora. Siccome tutte le testate giornalistiche stanno parlando in maniera entusiastica di quest’ultimo lavoro della band romana, abbiamo voluto capire se questo hype fosse giustificato o meno.
Tutti sappiamo che esistono dischi leggeri, che hanno venduto tanto e sono eccelsi: il problema, infatti, non è vendere. Il problema dell’ultimo disco dei Måneskin, Rush!, è che non dice davvero nulla, non nasconde minimamente di essere un semplice prodotto. Nessuno dice che la musica debba innovare, che un disco per essere bello debba essere unico, ma questo disco non ha consistenza. Non si sentono spunti originali, ogni pezzo sembra una riproposizione di cose sentite e risentite senza un minimo di rielaborazione.
I Måneskin sembrano essere passati dagli anni ’70 fino ai Queens of the Stone Age senza ascoltare nulla nel mezzo.
Giocano sul conservatorismo musicale che permea gli ascoltatori generalisti del rock, puntando sempre sui soliti riferimenti e su scelte compositive e stilistiche che sanno di stantio.
I membri presi singolarmente probabilmente non sono nemmeno negati, a parte le chitarre, probabilmente la parte più debole: Damiano David ha una voce accettabile, anche se si tratta dell’ennesima voce grave da rocker italiano, le sezioni ritmiche sono la parte migliore del disco, Victoria De Angelis non sarà Kim Gordon ma c’è di peggio, e la batteria fa il suo lavoro.
Il problema è che saper suonare gli strumenti non significa saper fare buona musica: l’esecuzione non basta, quello che i Måneskin fanno è una operazione nostalgia presentata come un qualcosa di fresco, ma è uno stile sorpassato ovunque lo si guardi. I riferimenti sembrano essere sempre i soliti di una qualsiasi band mainstream italiana che abbia mai fatto rock, l’unico rimando a qualcosa di un po’ meno scontato finisce però per essere un rip off degli Idles e ci riferiamo a Cool Kids, probabilmente il peggior pezzo del disco.
La figura della rockstar è morta, il rock duro e puro è morto, ma purtroppo non del tutto.
I Måneskin con un’estetica alternativa finiscono per fare musicalmente la cosa più conservatrice del mondo senza un minimo di inventiva, puntando sul conservatorismo musicale del fandom del rock, spremendone le ultime gocce nel loro portafogli.
Sono stati furbi, intelligenti e bravi a capire cosa diventare. Nulla contro questi ragazzi che stanno avendo successo, ma se si deve parlare di musica purtroppo non c’è nulla di cui parlare, solo una grossa operazione commerciale creata ad arte.
Le speranze erano che dopo il grosso successo ottenuto avessero la pancia piena e provassero in un qualche modo a rivedere il loro stile. Magari rielaborandolo e rendendolo un minimo più personale e al passo coi tempi, invece nulla. Forse non saranno mai i nuovi Led Zeppelin o i nuovi Queens of the Stone Age, ma hanno sicuramente tutte le carte in regola per essere i nuovi Greta Van Fleet.