Del: 17 Marzo 2023 Di: Michela De Marchi Commenti: 0

Moda, femminismo e patriarcato sono più interconnessi di quanto si pensi: tutto quello che si indossa in una data epoca dice molto della società e delle tensioni interne ad essa. Se oggi possiamo anche attraverso l’abbigliamento rivendicare la libertà di non sentirci incasellati in un genere, lo dobbiamo alle lotte che ci sono state nell’evoluzione del costume. Inizialmente soprattutto da parte delle donne, la cui ribellione al sistema patriarcale ha coinvolto anche la moda.

Innanzitutto, capi unisex e moda gender fluid non sono sinonimi.

Per collezione unisex si intende un unico capo che può essere adattabile a un corpo maschile o femminile, mentre la moda gender fluid implica il rifiuto della categorizzazione binaria tra i due sessi e la possibilità di esprimere se stessi con il modo di vestire, a prescindere dal genere biologico di appartenenza.

La genderless fashion propone capi per ogni corpo e ogni genere, senza distinzioni: è una moda etica e inclusiva.

Con lo stratificarsi della società in gerarchie, gli abiti sono stati uno degli strumenti utilizzati per mostrare la differenziazione tra le persone, assumendo la funzione di individuare status diversi, più che i due generi.

È con il Medioevo che ha iniziato a farsi strada in modo più marcato la separazione dell’abbigliamento tra uomo e donna, in coincidenza anche della spartizione lavorativa secondo cui l’uomo necessitava di abiti comodi per il lavoro nei campi, al contrario delle donne, le quali però poi nel Rinascimento sono state attaccate da leggi riguardanti l’abbigliamento esplicitando cosa fosse decoroso e cosa inappropriato indossare.

Un simbolo di questa oppressione è per esempio il corsetto, funzionale a rendere le donne immobili e passive provocando deformità delle costole, danni agli organi interni e svenimenti a causa delle stecche in osso di balena che circondavano la vita.

Dal diciannovesimo secolo vediamo una serie di cambiamenti che hanno portato veri e propri spartiacque non solo nel mondo nella moda, ma nella società.

È con la designer Amelia Bloomer che a metà del 1800 i pantaloni diventano abiti desiderabili e adatti anche per le signore: con il primo giornale femminile diretto da una donna, The Lily, Bloomer propose l’utilizzo da parte del pubblico femminile di abiti meno restrittivi, portando poi alla nascita dei bloomers, pantaloni molto larghi e stretti alla caviglia, attaccati poi dall’opinione pubblica proprio per il fatto di far indossare alle donne un capo maschile. Questa novità, seguita poi anche dall’adozione femminile di camicie o giacche, è stata funzionale soprattutto all’appropriazione di ruoli sociali prima riservati agli uomini, per esempio alcuni lavori più pratici o la possibilità di praticare sport.

Altra rivoluzione è stata negli anni 60-70 del ventesimo secolo l’invenzione da parte di Mary Quant della minigonna, simbolo della rivoluzione sessuale che portava con sé una presa di posizione sociale, culturale e politica: non era solo la possibilità di indossare una gonna più corta, ma di disporre liberamente del proprio corpo e di essere considerate al pari dei coetanei maschili senza una differenziazione sociale.

In questa battaglia non sono mancati anche i contribuiti da parte degli uomini, primo tra tutti Jean Paul Gaultier.

Egli è stato in grado di rompere con la tradizione e andare oltre i limiti delle categorizzazioni di genere. Infrangendo stereotipi e barriere etniche, culturali e sessuali, ha portato al superamento del binarismo di genere nella moda, soprattutto attraverso la sfilata primavera/estate 1985 Et Dieu Créa l’Homme (E Dio creò l’uomo): con un ribaltamento del concetto classico di mascolinità, si creò scalpore portando in passerella uomini e donne con capi d’abbigliamento indistinti rispetto alla norma, quindi si osservarono le prime gonne da uomo, cappelli da baseball per le donne e vestiti oversize o con stampe vivaci per entrambi. Innanzitutto travalicare i confini di genere dichiarando un’identità fluida significa non parlare di sesso e della distinzione tra femminilità e virilità, ma poter esprimersi senza dare etichette precise accogliendo diverse sfumature nello stile.

Oggi due personaggi fondamentali che abbracciano questa moda senza seguire i vari cliché stilistici femminili e maschili sono Harry Styles e Timothée Chalamet.

Il primo rivendica la propria libertà di espressione, addita come icone David Bowie ed Elton John, e afferma: «Se elimini il concetto di vestiti da uomo e da donna, il tuo campo da gioco si allarga. Come in ogni cosa, se alzi delle barriere ti limiti da solo». Simbolo della battaglia contro la mascolinità tossica, è apparso più volte in pubblico con gonne, gioielli, abiti in pizzo o paillettati: in occasione del Met Gala 2019 per esempio è apparso sul red carpet con una tuta nera da donna trasparente, orecchini di perle e unghie laccate; in alcuni eventi ha optato per tacchi alti, o ancora è apparso sulla copertina di Vogue del dicembre 2020 con una micro giacca da smoking e un vestito con corpetto e balze di pizzo.

Il cantante Harry Styles su Vogue

Anche con Timothéè Chalamet assistiamo a un ribaltamento dell’immagine di mascolinità: per esempio l’attore è apparso sul red carpet di Venezia con una tuta rosso rubino di Haider Ackermann che lasciava la schiena nuda creando un look sensuale subito diventato virale, oppure a diversi Met Gala e premiazioni ha sfoggiato giacche portate senza camicia, choker di perle, calze sopra i pantaloni e i numerosi tailleur a fantasia.

Abbiamo degli esempi anche in ambito italiano.

Possiamo citare per esempio Blanco che sul palco di Sanremo 2023 definisce l’estetica genderless con la camicia di pizzo Valentino, i boxer bianchi Calvin Klein e il corsetto Dolce& Gabbana, ulteriore passo in avanti per comprendere anche come questo capo secoli fa era categorizzato come femminile, mentre oggi perde la sua connotazione di genere.

Blanco e Mahmood ospiti a Sanremo 2023

Ovviamente si potrebbero citare altre centinaia di personaggi pubblici, donne e uomini, che contribuiscono alla diffusione della moda gender fluid, ma questo fenomeno non rimane confinato sui red carpet o sulle passerelle delle fashion week: un numero crescente di consumatori soprattutto della Gen Z non acquista più attraverso categorie specifiche di genere, infatti, secondo una ricerca operata dalla società fintech Klarna, circa il 50% della Gen-Z a livello globale ha acquistato moda al di fuori della propria identità di genere

Il tutto ha però degli ostacoli molto ampi.

Sui social spesso scoppiano polemiche con commenti sessuofobici gridando da una parte alla messa in crisi dell’immagine di ‘maschio alfa’ e dall’altra criticando la poca femminilità da parte delle donne. Inoltre nel 2015 in una città dell’Alabama era stato proposto di vietare la minigonna e un senatore dello stato del Kansas vietò, sempre nello stesso anno, l’utilizzo del capo da parte delle donne che lavoravano con lui. Sono questi gli episodi che dimostrano come ancora oggi i codici di abbigliamento femminili siano tutt’altro che liberi e la moda gender fluid ha ancora difficoltà da superare.

Nonostante ciò, come indossare i pantaloni fece la rivoluzione per le donne molti anni fa, ora gli orizzonti si devono allargare ulteriormente permettendo a un uomo di mostrarsi con un abito plissettato senza etichette o critiche.

Michela De Marchi
Studentessa di Scienze umanistiche per la comunicazione che aspira a diventare una giornalista. Sono molto ambiziosa e tendo a dare il meglio di me in ogni situazione. Danza, libri e viaggi sono solo alcune delle cose che mi caratterizzano.

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