La lingua è ciò che modella il nostro pensiero, sulle parole conosciute si costruiscono i pensieri, le idee, e alla fine anche la nostra visione del mondo. Non avere le parole per identificare un fenomeno, infatti, equivale ad ignorarlo. Questo accadeva quando non esisteva la parola femminicidio: si poteva continuare ad ignorare un fatto considerato “privato” e “parte dell’educazione della donna”.
Diana Russel, scrittrice e attivista femminista, nel 1976 propose una prima definizione del femicide: “Uccisione di una donna da parte di un uomo in quanto donna”. Il contesto era una sentenza del Tribunale internazionale sui crimini contro le donne ed il senso era indicare una fattispecie diversa dall’omicidio volontario, in quanto l’assassino agiva secondo una logica misogina, che veniva (e viene) giustificata ed incentivata dalla società patriarcale in diversi modi.
Nella sua opera “Femicide, The politics of woman killing” (1992), Russel spiega come i femmicidi avvengano quando la donna intraprende una strada indipendente rispetto al ruolo di genere che la società si aspetta.
L’uomo violento, infatti, non tollera il comportamento fuori dalle righe di una donna che si ribella alla gabbia sociale da secoli imposta al suo genere e agisce giustificandosi di conseguenza.
Nello stesso testo, Russel e Radford aggiungono poi che il “femicide comprende la morte per mutilazioni, la morte per stupro, i maltrattamenti che terminano in assassinio, la storica persecuzione delle streghe in Europa, l’antica e pur attuale immolazione delle spose vedove in India e il delitto d’onore, quando le donne che si suppone abbiano perso la verginità vengono uccise dai loro stessi parenti.”.
L’apporto delle autrici è fondamentale, perché evidenzia come questo tipo di violenza accada principalmente fra le mura domestiche, perpetrata da uomini conosciuti, che spesso dicevano di amare le vittime. Il loro gesto, quindi, è compiuto dal singolo, ma viene sostenuto e giustificato dalla società patriarcale, che spinge l’uomo a percepire la donna come “proprietà” e a considerare suo il compito di “educarla”, anche con la violenza.
Questa definizione, però, considera una fattispecie limitata. Ai tempi era rivoluzionario considerare la casa come il primo luogo in cui avvengono i femminicidi e si andavano a porre i riflettori dove l’uomo medio non avrebbe voluto. Nonostante il grande apporto alla denuncia dei casi di femminicidio, il lavoro di Russel escludeva altri casi, in cui l’esito tragico avvenisse fuori dalle mura domestiche, ma con la stessa componente d’odio e possesso.
La descrizione del femicide, quindi, arriva in Italia sotto le spoglie del termine “femmicidio”. In teoria, avrebbe dovuto indicare la morte di una donna per mano di un uomo che fu spinto da pratiche e idee misogine, condivise da una società, a cui spetta il compito di risolvere questo problema. Avrebbe dovuto filare, secondo la definizione esaminata, ma fu un altro termine ad avere fortuna nel settore.
“Femminicidio” deriva dallo spagnolo feminicidio. Fu introdotto dall’antropologa e deputata messicana Marcela Lagarde, che aveva studiato i lavori di Russel ed ebbe l’idea di approfondire un concetto complesso.
Nel 2004 l’autrice impiega per la prima volta questo termine per trattare il caso di Ciudad Juárez, una città nello stato messicano del Chihuahua. Qui, fra il 1993 ed il 2004 furono uccise 391 donne, ma la spiegazione data dalle Istituzioni fu di semplici omicidi. Secondo Lagarde, invece, erano state uccisioni dovute alle mani di uomini violenti, che esercitavano forme di controllo sulle donne. Aggiungeva anche una critica allo Stato, che non era intervenuto a sostenere le vittime di violenza. Per questo motivo, parlava di “violenza istituzionale”, spiegando che i femminicidi avvengono molto più facilmente in situazioni di governo instabile, quando le donne vengono lasciate sole e sembra che non esista un apparato legislativo a loro supporto; in questi casi il gesto viene normalizzato e sostenuto da idee patriarcali di dominio e sottomissione, ciò che è illegale diventa sempre più legale.
La studiosa, infatti lo definiva come «la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia».
I fatti di Ciudad Juárez fecero il giro del mondo e giunsero anche al cinema, con il film Bordertown, che diede una spinta all’utilizzo del termine femminicidio nelle masse. Grazie all’impatto che ebbe nell’opinione pubblica e anche frutto del lavoro costante di Lagarde, che nel frattempo aveva dato vita a veri e propri sistemi di rivoluzione del Parlamento dello stato del Chihuahua per analizzare il fenomeno e recriminarlo nel modo adeguato; in molte parti del mondo si trovò il termine adatto a descrivere un gesto che avveniva ovunque, con le stesse dinamiche.
Ad oggi abbiamo le parole per identificare il femminicidio, grazie a chi ha lottato, chi ha alzato la voce e chi ha studiato il fenomeno a fondo, ponendo le basi giuridiche con cui condannare gli esiti tragici della società patriarcale.
Foto di copertina: Franca Valeri