Il 15 di ogni mese, 5 album per tutti i gusti: Giradischi è la rubrica dove vi consigliamo i dischi usciti nell’ultimo mese che ci sono piaciuti.
Casadidadi Ensemble, C’est Blues Facìl (Kaleidofon Records) – recensione di Laura Colombi
Una vera e propria chicca è l’ultimo lavoro dell’italiana Casadidadi Ensemble intitolato C’est Blues Facìl, pubblicato il 17 marzo. La band funky-jazz gioca alla contaminazione con l’elettronica, dando vita a un album di un’ora abbondante all’insegna del divertimento. Contribuiscono, in questo senso, i loop e sample di svariata provenienza, come i canti contadini in Blue Taranta. O ancora, il gioco si spinge fino all’esplorazione oltre l’umano, come in The White Fly and the Black Sheep. Dopo due anni dall’ultima pubblicazione, la band – animata da David Treggiari, musicista di lunga esperienza all’Umbria Jazz Festival, tra le figure laterali ma preziosissime del panorama musicale italiano – è ritornata a tutti gli effetti a farsi sentire.
James Holden, Imagine This Is a High Dimensional Space of All Possibilities (Border Community Recordings) – recensione di Gabriele Benizio Scotti
James Holden è uno dei principali artisti di musica elettronica della scena britannica. The inheritos a suo tempo ha fatto un certo rumore venendo celebrato dalla critica e attirando l’attenzione di pezzi grossi come Thom Yorke che addirittura lo convincerà a performare il suddetto album in live, nonostante nei piani di Holden non fosse concepito per essere suonato in quella modalità. Cosa dire invece di quest’ultimo album? Esso si presenta come una commistione di elementi contemporanei ed elementi nostalgici appartenenti a un’elettronica scomparsa e soffocata dall’elettronica mainstream tanto avversata dallo stesso Holden tanto che affermerà in un’intervista “l’elettronica mainstream è merda”. L’album è un sofisticato esempio di elettronica commistionata ad elementi ambientali, psichedelici, techno, un qualcosa che si piazza a metà tra tutto quell’ambient trascendente psichedelico e la techno malinconica e sognante da rave fine anni 90. James Holden fa un omaggio all’elettronica vecchio stampo, rimodellandola con canoni contemporanei e lontano da qualsiasi contaminazione col mercato mainstream, ponendosi in antitesi ad esso, e dando allo spettatore un album da assorbire ascolto dopo ascolto, perché a lui la musica da fast food proprio non piace.
JPEGMAFIA e Danny Brown, Scaring the Hoes (AWAL) – recensione di Luca Pacchiarini
Arrivato con molte attese, questo album è il risultato di due delle menti più interessanti e sperimentali dell’hip hop statunitense. Ispirati e ispiratori di molto, qui i loro due stili unici si miscelano creando qualcosa di nuovo, le base si frammenta in pezzi come Steppa Pig, si fa molesta e a tratti noise-jazz nella title track insieme ai rap dei due che si fa tagliente e corposo. Numerose la citazione e rimandi tramite i campionamenti in tracce come Garbage Pale kids e in Fantanyl Taster, quest’ultima dimostra l’incredibile capacità di produrre di questi due artisti in un pezzo che è caoticamente ordinato. Forse il capolavoro dell’album è Burfict!, qui il loro particolarissimo rap si incontra ad una base di trombe e applausi che regala un senso di inaspettata potenza. Ma la comicità demenziale che contraddistingue i due artisti è comunque presente in pezzi come God Loves You in cui le sonorità di una chiesa gospel sono legate ad un testo che tramite riferimenti biblici esalta vari modi per fare sesso. La conclusione dell’album è poi grandiosa in un pezzo che mischia e amalgama di tutto e di più; questi due artisti procedono ad inventare e rinnovare, le loro capacità non deludono mai.
Yvest Tumor, Praise A Lord Who Chews But Which Does Not Consume (Warp Records) – recensione di Laura Colombi
L’artista statunitense ma con base a Torino dà vita questa volta a un album pretenzioso come nel suo stile. Praise A Lord è un ascolto grazioso, dal tono combattivo e riflessivo allo stesso tempo. L’effetto è ottenuto privilegiando il lavoro sulla sezione ritmica nel primo caso, sulle chitarre nel secondo, anche se a quest’ultime è riservato un posto centrale. Il lavoro può essere ascritto ai generi del rock leggero, forse addirittura del pop-rock: la fisionomia di Tumor è quasi quella di un giovane Lenny Kravitz – pensando ai suoi album più intimi – molto aperto all’elettronica e per certi versi ancorato al rock degli anni 90. Interessante il lavoro sui testi, non semplici da comprendere (e sta proprio qui il bello) ma incredibilmente orecchiabili. E anche quando le parole sono assenti, come in Purified By the Fire, viene detto moltissimo. Forse non è nulla di davvero originale, ma è finalmente un album concettuale, in cui l’aspetto commerciale non va a sacrificare quello che è a tutti gli effetti un prodotto artistico concepito da artisti.
100 gecs, 10,000 gecs (Atlantic) – recensione di Luca Pacchiarini
Anche se non hanno inventato loro l’hyperpop, sicuramente sono tra gli artisti più rappresentativi e che più l’hanno influenzato. Dopo 4 anni dal loro primo album, che creò uno scossone non da poco, arriva il secondo album di questa coppia demenziale tanto quanto interessante, anche qui mischia generi, riferimenti e mondi: dubstep, noise, ska, videogames, punk e molto altro. Fin dalla prima traccia, Dumbest Girl Alive, che inizia citando Vaultage 003 di Space Lecess per interromperlo con dei colpi di pistola e una chitarra volutamente ultra-pop. Suoni digitali del mondo geek, come un blaster di star wars, in 757 procedono a un mix continuo in puro loro stile. La demenzialità è totale in Frog on the Floor, un inaspettato pezzo più rilassato rispetto al resto, che fa respirare preparando ad una seconda parte del tutto pazza: Doritos & Fritos con un marcatissimo basso e un ritmo incalzante, esplode tutto in Billy Knows Jamie in cui torna la loro inflenza dal noise e dall’hardcore in un apogeo rabbioso e cacofonico. Questo procede in One Million Dollars in cui la ripetizione si fa cattiva, stupida, divertente. Il divertimento è il miglior modo per capire questi musicisti, essi sono rappresentativi di un modo di intendere la musica come funny, leggera e stupidamente no sense, come si sente in I Got My Thooth Removed, un pezzo che inizia triste e lento per poi mutare improvvisamente in uno ska ballabile dal cantato gioso nonostante il testo sia su qualcosa di doloroso. Questo gruppo continua a reinventarsi senza mai prendersi sul serio, questa è la chiave del successo del loro genere, morirà appena ci si prenderà sul serio.