Del: 14 Aprile 2023 Di: Redazione Commenti: 0
L’opposizione che verrà e i tanti problemi del governo

Si può affermare senza particolari dubbi che il governo Meloni non stia attraversando un momento roseo. Sono ancora molti i dossier da sbrigliare, unitamente a qualche uscita della compagine di governo e maggioranza decisamente infelice che complica la reputazione della destra governista.

La buona stella dell’esecutivo sembra però ancora brillare forte, visto che i suoi deficit non sono stati messi in luce da un’opposizione che finora si è dimostrata frazionata, dormiente o ancora in fasce.

Matteo Renzi, fresco di nomina come nuovo direttore de Il Riformista, crea un aggrovigliato doppio binario tra un giornale e un partito (o partiti?) in un Terzo Polo già di per sé bicefalo e che ancora stenta ad ingranare a livello elettorale. Nel frattempo, Carlo Calenda puntualizza e anche un po’ polemizza sulle decisioni di Renzi, mentre sembra preferire le trasmissioni televisive ai lavori in parlamento.

È infatti lui il leader politico con maggiore presenza mediatica, complici anche le campagne elettorali in Lazio, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia. Tutt’altro discorso sono i risultati ottenuti in queste elezioni. Le grandi distese del centro riformista non sembrano ancora essersi materializzate e pare che il Terzo Polo stia un po’ stretto sia a Renzi che a Calenda. Questi rischiano di giocare il ruolo, visti i caratteri forti di entrambi, di due galli in un pollaio.

Tra i Cinque Stelle Giuseppe Conte sembra essere sprofondato in un silenzio inusuale, causato soprattutto dal favore mediatico nei confronti di Elly Schlein, soprattutto se si considera il fatto che l’ex premier era il più pasionario dell’opposizione pre-primarie, specialmente confrontandolo con l’ex segretario del PD Enrico Letta.

È da notare l’apertura di Conte ad un tavolo con il governo per la gestione dei fondi del PNRR, collaborazione inattesa e decisamente improbabile. Però proprio il Movimento Cinque Stelle dovrebbe essere, a rigor di logica, il partito con maggiori remore nei confronti dell’attuale esecutivo.

Da quando si è insediato il governo Meloni tutte le battaglie dei Cinque Stelle, dal superbonus 110% al reddito di cittadinanza, stanno venendo smantellate.

Il grande assente del triumvirato delle opposizioni è comunque il PD, numericamente il primo partito d’opposizione, appena dotatosi di una nuova segreteria. Elly Schlein ha presentato prima di Pasqua, circa due mesi dopo le primarie, la sua nuova squadra di partito, segnando un marcato e fortemente auspicato quanto necessario cambio di rotta verso sinistra con aperture alle parti movimentiste e chiusure per quelle riformiste.

Il rinnovamento della segreteria non sembra aver tamponato a livello macro un correntismo endemico al PD, fatto curioso se si considera uno dei due padri nobili del Nazareno. Ciò è vero alla luce delle forzature necessarie per la nomina dei capigruppo di Camera e Senato e alla composizione della direzione, organo che ha il compito di definire l’indirizzo politico del partito.

All’orizzonte si profilano già tensioni interne, rivelatrici di un rinnovamento agli inizi. Una su tutte è la differenza di vedute tra il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e la responsabile per il clima Annalisa Corrado, in quota Schlein, circa la realizzazione del nuovo termovalorizzatore della capitale. Il primo è schierato su posizioni fortemente a favore senza se e senza ma, pronto ad andare avanti anche senza l’assenso del partito; la seconda è già pronta a dare battaglia per “tutte le fake news sull’inceneritore”.

Già il governo Draghi è caduto per il problema del termovalorizzatore capitolino, se questo sia stato l’effettivo casus belli o meno è un’altra questione. Si vedrà come e se il PD riuscirà a trovare una quadra a riguardo.

Anche in politica estera non sembra ancora esserci particolare sintonia. Pesa, infatti, la velata titubanza riguardo il sostegno militare all’Ucraina.

Questi è stato scolorito dalla non compattezza emersa dai voti contrari di parte (seppur molto piccola, va detto) del partito, in particolare di due senatori facenti capo all’ala degli ex di Articolo Uno, appena confluiti nel PD. La votazione precede l’elezione di Schlein a segretaria, ma ciò non annulla il fatto che nel PD vi sono delle voci discordanti sul tema Ucraina, pronte a farsi sentire.

A febbraio, nella mozione presentata per le primarie della segreteria di partito, Schlein aveva affermato di voler sostenere militarmente l’Ucraina, stemperando al contempo la propria posizione dicendo che “le armi non risolvono i conflitti, e […] non possiamo attendere che cada l’ultimo fucile per costruire la via di una pace giusta”. Aria di cerchiobottismo per tentare di inseguire elettoralmente i Cinque Stelle o semplice assestamento di vedute?

Accusare il PD di essere filorusso o altro è pura pazzia, ma si può pensare ad un eventuale ammorbidimento della linea atlantista, per favorire una maggiore autonomia europea in politica estera. L’idea, se effettivamente di questo si parla, di per sé non sarebbe né distruttiva né eterodossa.

Il presidente francese Emmanuel Macron spinge da tempo per un maggiore peso europeo negli affari esteri. L’esecuzione di questa nuova strategia appare difficile vista la sintonia tra Washington e Bruxelles. A riguardo sono da notare le posizioni del nuovo segretario del PD per gli esteri, Giuseppe Provenzano. Non proprio un atlantista di ferro, seppur sempre granitico circa il supporto all’Ucraina, sembra caldeggiare le amicizie coi governi progressisti dell’America Latina. Ottimi governi con programmi di civiltà, seppure con qualche problema di salute politica, ma che certamente non possono essere considerati partner strategici per l’Italia.

Il quadro tracciato dalle opposizioni denota fermento e attività (quasi tutti negli ambiti sbagliati), ma risulta pressoché innocuo e per ora inadatto a dare battaglia all’esecutivo sui molti tasti dolenti toccati nelle ultime settimane.

Tra questi pesano le problematiche legate ai fondi del PNRR e l’immobilismo del governo a riguardo. La Corte dei Conti ha certificato i ritardi nella spesa dei fondi finora messi a disposizione e nella realizzazione dei progetti, dovuti alle difficoltà circa la governance del progetto e all’incapacità strutturale, aggravata da una burocrazia bizantina, da parte italiana di spendere i fondi ricevuti. A ciò va anche sommato il fatto che gli enti locali non siano riusciti a trovare personale qualificato per gestire i fondi erogati, tra scarsità di competenze e modalità di reclutamento dei tecnici (queste di competenza governativa) non stabili.

La Commissione Europea ha inoltre sollevato diversi dubbi su tre progetti italiani, richiedendo chiarimenti circa il regolamento per le concessioni portuali, la rete di teleriscaldamento e l’utilizzo di fondi europei per rinnovare due strutture sportive, una delle quali è lo stadio Artemio Franchi della Fiorentina.

Il ministro per gli Affari Europei, con delega per il PNRR, Raffaele Fitto ha esternato le criticità del piano, affermando che alcuni progetti non potranno essere realizzati entro il 2026. Secondo il ministro ciò è “matematico” e “scientifico”, aprendo la strada ad una sorta di operazione verità sul PNRR.

Queste problematiche hanno fatto emergere la possibilità di rinunciare ad una parte dei fondi,

come ventilato dal capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, alle cui dichiarazioni il governo ha cercato di porre un freno. Il problema è duplice. I progetti del PNRR sono necessari per rilanciare e modernizzare il paese (vera ultima chance per l’Italia), vanno necessariamente realizzati e se l’Italia non usa i fondi europei allora li dovrà recuperare sul mercato, creando debito a condizioni decisamente peggiori di quelle offerte dall’UE. Dilemma sovranista.

Si spera inoltre che i paesi definiti “frugali” in termini di politiche di spesa, quali Svezia, Austria e Danimarca, siano distratti per mille motivi e non stiano ascoltando i discorsi del governo italiano sui fondi europei, i quali farebbero mettere le mani nei capelli ai falchi del rigore fiscale. Dopo anni passati a fare pressioni per un’Unione Europea meno rigida fiscalmente con debito comune e vincoli di bilancio più morbidi, concessioni care in particolare alla destra, sarebbe un autogol imbarazzante affermare che, una volta ricevuti i finanziamenti richiesti, l’Italia non sia in grado di spenderli come si deve e che anzi, meglio ridarli indietro. Se così fosse avrebbero ragione loro a chiudere i rubinetti.

Altra problematica, più un insieme di circostanze che un singolo fatto concreto, è il panpenalismo che veleggia col vento in poppa dalle parti dell’esecutivo.

Da quando è nato il governo sono stati via via introdotti o è stata manifestata la volontà di introdurre i reati più disparati riguardanti: rave party, scafisti, maternità surrogata, istigazione all’anoressia, uso di forestierismi nei documenti della pubblica amministrazione e carne sintetica, solo per citare quelli più pubblicizzati.

Recente è il ddl di Fratelli d’Italia contro gli “eco-vandali”, che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni anche chi deturpa o imbratta edifici pubblici o di culto ed edifici sottoposti a tutela come beni culturali

Questa tendenza sorprende, in negativo, se si pensa alla filosofia giuridica dello stesso ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per cui aumentare le pene o istituire nuovi reati per ottenere un effetto deterrente sia sostanzialmente inutile. Ciò che conta è l’efficienza della giustizia, non quanto questa sia severa o espansiva. Sembrano esserci dubbi circa cosa si intenda effettivamente con il termine “certezza della pena”.

Se a ciò si unisce la ricerca quasi assidua di un nuovo nemico pubblico o di un avversario che varia di mese in mese, dagli anarchici alle borseggiatrici di etnia Rom, sembra che si stia creando una mentalità da assediati. Che questo fatto sia o un utile specchietto per deflettere il discorso pubblico dai pantani del governo o una vena ideologica il confine è sottile. Confine tracciato ovviamente tramite un decreto-legge dopo l’altro (non che i precedenti governi siano stati particolarmente parchi a riguardo, anzi), facendo fare il record all’attuale esecutivo dove 9 leggi su 10 approvate dal parlamento sono conversioni di decreti.

A tutto ciò va sommato il valzer delle nomine dei vertici delle partecipate dallo Stato, le quali stanno creando non pochi mal di testa specialmente tra Lega e Fratelli d’Italia.

In particolare, la Lega critica la riconferma di buona parte dei vertici di alcune partecipate, mentre la partita si scalda con la premier che spinge sui nomi papabili per i pezzi pregiati quali Eni, Enel, Terna, Leonardo e Poste Italiane. Si vedrà cosa verrà deciso al e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti.

Da non dimenticare, tra i problemi dell’esecutivo, le già citate uscite molto più che discutibili di ministri e altre cariche istituzionali. È ancora fresca la giustificata polemica per le dichiarazioni sbandate del presidente del Senato Ignazio La Russa sui fatti di Via Rasella, definibili solo come una sequela di falsità. A questa si accompagna la gestione esecrabile della comunicazione del governo in seguito alla strage di Cutro, unitamente alle frasi a riguardo del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la recente affermazione del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida per cui i giovani che prendono il reddito di cittadinanza dovrebbero andare a lavorare nei campi.

Tutto questo non aiuta a proiettare fiducia su una compagine di governo e su una maggioranza che deficita, per usare un eufemismo, di tatto istituzionale. Tenere a bada certe pulsioni verbali non dovrebbe essere un problema, in quanto chi ha incarichi di governo si pensa abbia già di per sé un meccanismo di autoregolazione. Emergono quindi in un ambito nella sostanza di secondo piano, eppure fortemente rivelatore come la comunicazione, tutte le problematiche di un partito che è sempre stato all’opposizione. Il primo partito d’Italia non ha una classe dirigente pronta a governare, in quanto deficita di esperienza e in alcuni casi è ancora legata a doppio filo con un passato storico e politico mai del tutto scomparso di cui sarebbe meglio tacere.   

I grattacapi e gli impantanamenti sono tanti, quelli elencati non sono nemmeno tutti, ma le opposizioni sembrano essersi appiattite in un’autoreferenzialità per cui ognuno parla lingue diverse, spesso e volentieri coi medesimi interlocutori.

Non ci si comprende, o meglio non ci si vuole comprendere, nemmeno quando sarebbe il caso. Il governo, volente o nolente, porge il fianco con le proprie debacle, ma non c’è nessuno veramente pronto a cogliere le opportunità. In tutto ciò l’esecutivo continua a fare orecchie da mercante, tentando tra le altre cose di rimettere assieme i cocci di un PNRR in salita.

Il governo Meloni ha ancora tanti temi delicati su cui sarebbe meglio vigilare, dalla gestione dei flussi migratori al piano per arginare una siccità che pare essere alle porte fino a decidere cosa fare con il rinnovo del memorandum per la Nuova Via della Seta, concordato con la Cina dal governo Conte I. In quest’ultimo caso appare molto facile il faux pas diplomatico. I problemi emergeranno e il governo tenterà di tirare a campare e deflettere, ovviamente sperando che nessuno se ne accorga più di tanto.  

Articolo di Lorenzo Pellegrini

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