Del: 9 Maggio 2023 Di: Martina Vercoli Commenti: 1
Atacama, il cimitero degli abiti dimenticati

Vi siete mai chiesti dove finiscano gli abiti invenduti nei negozi? Quelli che avete reso dopo un acquisto online, oppure quelli che avete scartato e deciso di mettere in uno dei tanti container per la donazione di vestiti, situati per le vie delle nostre città?

Oggi, tre quinti degli indumenti, finiscono in discariche o in inceneritori entro un solo anno dalla loro produzione, mentre solo il 15% dei tessuti utilizzati viene riciclato: un dato che si traduce in interi camion di abiti usati scaricati o bruciati ogni secondo. La maggior parte delle strutture adibite a questa funzione si trova oggi in America latina, Asia meridionale o in Africa, dove le nazioni che ricevono questi carichi non sono in grado di gestirne le immense quantità. Per esempio, una discarica nella periferia della capitale ghanese, Accra, è composta per il 60% da vestiti e raggiunge un’altezza di 65 metri.

Più della metà degli abiti dismessi viene spedita all’estero, in particolare, nei Paesi del Sud del mondo, dove finiscono in discariche. 

Si tratta di paesi che sono dotati di sistemi urbani per la gestione dei rifiuti meno avanzati, il che significa che il danno ambientale che ne consegue è enorme. Secondo un recente articolo della rete televisiva Al-Jazeera, 59.000 tonnellate di vestiti arrivano ogni anno al porto di Iquique, situato nel nord del Cile. Di questa enorme quantità, 39.000 tonnellate non possono essere rivendute perché considerate di scarsa qualità. Non potendo essere portati in discariche comunali, a causa dei prodotti chimici in essi contenuti, finiscono per essere abbandonati nelle discariche a cielo aperto, dove nessuno è responsabile della loro pulizia e del loro sgombero (a volte troppo costoso).

In particolare, uno dei posti tristemente noti per lo scarto del materiale tessile, è il deserto di Atacama, uno dei luoghi più aridi del mondo, situato nel nord del Cile, tra l’Oceano Pacifico e la catena delle Ande. Si tratta di un luogo che un tempo era noto in tutto il mondo per le sue vaste distese di canyon e i suoi picchi di rocce di un colore tra il rosso e l’arancio. Oggi invece, è tristemente conosciuto come “il cimitero del fast-fashion”. Il luogo in cui i vestiti invenduti vengono ammassati giorno dopo giorno, creando immense distese di abiti che solo qualche mese prima erano esposte nei negozi o appese nei nostri armadi. 

La situazione è talmente fuori controllo, che è stata definita dalle Nazioni Unite come «un’emergenza ambientale e sociale» per il pianeta. Per quanto possa sembrare improbabile che il materiale tessile scartato, giunga in un luogo così lontano da noi, ogni anno arrivano in territorio cileno milioni di tonnellate di vestiti dall’Europa, dall’Asia e dagli Stati Uniti. Secondo le statistiche della dogana cilena, l’anno scorso (2022) sono passate per il porto di Inique ben 44 milioni di tonnellate di indumenti. 

Questo è principalmente dovuto alla caratteristica dei porti cileni di essere esenti da dazi, duty-free. 

I porti aventi questa caratteristica sono ideati e progettati per incoraggiare l’attività economica, creando nuovi posti di lavoro, in quanto le merci vengono continuamente importate ed esportate senza che vi siano applicate imposte o tasse. Il Cile è divenuto ben presto uno dei maggiori importatori al mondo di abiti di seconda mano e con l’avvento del fenomeno fast-fashion, alcune aree del territorio cileno sono divenute un vero e proprio deposito di smistamento di rifiuti tessili provenienti da tutto il mondo, delle discariche a cielo aperto.

Quando un nuovo carico di indumenti giunge al porto cileno di Iquique, una squadra di lavoratori si occupa di separarli in quattro categorie, in base alla loro qualità e alla possibilità di essere rivenduti altrove. I capi migliori, preferibilmente ancora dotati di etichetta, vengono poi esportati verso altri paesi e continenti, tra cui: Repubblica Dominicana, Panama, Asia, Africa e negli Stati Uniti per essere rivenduti. 

Il problema maggiore è rappresentato da tutti quei capi di abbigliamento che non sono idonei ad essere esportati e dunque rivenduti, perché di scarsa qualità. Ciò che accade è che questi indumenti vengono trasportati fino alla periferia di Alto Hospicio, dove subiscono un altro ciclo di smistamento e rivendita in piccoli negozi e mercati di strada. Vi sono infatti molti cittadini Cileni che hanno creato le loro piccole attività commerciali da questo fenomeno e dunque, vivono di questo. 

Da qui la contraddizione. 

Nella prima puntata della docu-serie JUNK, prodotta da Sky Italia e Will, dedicata proprio al “cimitero” di Atacama, alcuni abitanti dell’area affermano di essere consapevoli dell’enorme danno ambientale, ma che allo stesso tempo, senza queste montagne di materiale tessile importato, perderebbero le loro attività commerciali, già fragili, non sapendo di cosa occuparsi.

Ciò che non viene ritenuto idoneo nemmeno per essere venduto al mercato è destinato ad essere trasportato e scaricato nel deserto e lasciato lì a danneggiare l’ambiente circostante. Si tratta infatti di indumenti che possono richiedere anche 200 anni per biodegradarsi e sono tossici quanto i materiali plastici. La maggior parte dei vestiti che sono accumulati sulle dune artificiali del deserto, sono composti da materiali come il poliestere, derivato dalla plastica, economico ed estremamente resistente, dunque difficile da smaltire.

Usurati dalle intemperie, i vestiti continuano ad inquinare il suolo e falde acquifere sotterranee, mettendo in pericolo gli abitanti stessi e la biodiversità locale. Molto spesso, l’unica soluzione che gli abitanti hanno per sbarazzarsi delle montagne di indumenti è bruciarli compromettendo gravemente la qualità dell’aria.

Per affrontare l’emergenza, il governo di Gabriel Boric, presidente cileno, ha annunciato un nuovo provvedimento di legge che dovrebbe essere applicato a partire da quest’anno, riguardo la responsabilità etica del produttore. 

Le aziende che importano materiale tessile dovranno gestirne gli scarti e facilitarne il riciclaggio. Gli studiosi però, sono piuttosto pessimisti, non pensano che questo provvedimento riuscirà a controllare e ad imporre un determinato comportamento, data la scarsità di risorse per imporre eventuali sanzioni alle industrie responsabili di inquinamento nel deserto di Atacama.

Martina Vercoli
Studentessa di Corporate Communication presso l’Università degli Studi di
Milano. Amo viaggiare, scrivere, bere cappuccini e parlare di progetti di mobilità Europea.

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