Del: 31 Maggio 2023 Di: Clara Molinari Commenti: 0
Detenute madri di fronte alla legge

“Pentita? Non lo so. Dispiaciuta? Mi dispiace per mio figlio, l’ho partorito tra le sbarre, l’ho allattato come una tigre in gabbia, l’ho accudito per tre anni, poi ho dovuto lasciarlo andare.”

Queste le parole di Miranda Carbone, il sommesso e amaro lamento di una madre i cui più viscerali istinti materni sono stati soppressi dalla privazione forzata di suo figlio. Sono le parole di una madre detenuta, colte e messe per iscritto dall’autrice Antonella Cavallo in una raccolta di racconti intitolata “Le libertà violate. Donne dietro le sbarre. Racconti di ordinaria inquietudine”, pubblicata nel 2016. E, ancora, si tratta della voce di una donna che ci ricorda che anche nel lontano, quanto vicino, luogo delle carceri ci sono madri, bambini e, inevitabilmente, rapporti umani da tenere in considerazione, da tutelare e regolamentare.

Il problema della maternità in carcere, affrontato e discusso a ondate alterne, secondo il ben noto meccanismo dell’empatia collettiva per le notizie del momento, è recentemente tornato oggetto di dibattito, a seguito del ritiro da parte del Pd del disegno di legge sulle detenute madri, a prima firma Serracchiani, attuale capogruppo Dem a Montecitorio. Si trattava di un progetto di legge volto ad ampliare la tutela dei figli minori di genitori soggetti a una misura detentiva, attraverso la valorizzazione degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri e delle case famiglia protette. L’8 marzo però il testo è stato bloccato da una serie di emendamenti avanzati da Fratelli d’Italia e il 23 marzo è stato ritirato.

“L’obiettivo di questo provvedimento non era certo quello di un’amnistia per tutte, ma far sì che le mamme e i minori potessero vivere, nel momento più delicato per i bambini, non in un carcere ma in una casa protetta”, ha dichiarato la parlamentare del Pd Debora Serracchiani, che aveva portato avanti la proposta.

Era questo quindi l’obbiettivo principale del disegno di legge Serracchiani: promuovere il modello della casa famiglia protetta, modello che avrebbe permesso di sopperire ad alcune importanti mancanze e contraddizioni insite nella vigente normativa sulle misure restrittive per le detenute madri.

Ad oggi, una prima fondamentale forma di misura alternativa alla detenzione è sicuramente quella rappresentata dalla detenzione domiciliare, in base a cui le condannate madri di bambini di età inferiore ai dieci anni, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in un altro luogo di privata dimora, di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena o dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo.

La disciplina di questa misura restrittiva, tuttavia, fino al 2011 non ha tenuto conto di un dato fondamentale: il contesto sociale da cui provengono le “detenute tipo”. Le donne che si trovano in carcere con i loro figli, infatti, sono per la maggior parte straniere, provengono da contesti sociali degradati e hanno spesso riportato più di una condanna penale. Di conseguenza, le condizioni necessarie per accedere al beneficio della detenzione domiciliare risultavano un limite invalicabile per un gran numero di madri, che si vedevano private della possibilità di vivere la propria maternità al di fuori delle mura del carcere.

Lo Stato ha affrontato la questione solo nel 2011, con la legge n. 62, il cui testo prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino a sei anni di età, misure rappresentate dagli Istituti a custodia attenuata per le madri (ICAM) e dalle case famiglia protette. Attualmente però, solo poche regioni sono dotate di strutture idonee a consentire l’applicazione di queste misure, con la conseguenza che diverse detenute, con figli anche molto piccoli, rimangono in carcere, proprio come accaduto a Miranda Carbone. Per tre anni ha potuto tenere con sé suo figlio, dietro le sbarre, per poi vederselo strappare dalle braccia senza indugi, dal basso della propria impotenza. E così Miranda, come tante altre detenute madri, ha sofferto di un dolore straziante: prima per la sola idea di costringere il proprio bambino a stare chiuso in una cella senza che ne avesse colpa alcuna e poi, dopo che le era stato portato via, per la terribile sensazione di averlo abbandonato.

Ci si chiede se può essere considerato umano un simile trattamento; se può il carcere, anche nelle strutture in cui sono state realizzate sezioni nido, essere considerato un luogo compatibile per il corretto sviluppo psicofisico del bambino. Di recente una risposta si è fatta sentire a gran voce, attraverso il disegno di legge Serracchiani, il cui obbiettivo era chiaro: niente più bambini in carcere con le loro madri. La proposta Dem, infatti, escludeva la custodia cautelare in carcere della donna incinta o della madre di figli di età inferiore a 6 anni con lei conviventi, fatta salva, laddove sussistessero esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la possibilità di disporre o mantenere la custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.

Come ha reagito il centrodestra di fronte a questa proposta? Presentando emendamenti, poi approvati in commissione, che andavano ad apportare al disegno di legge elementi addirittura peggiorativi rispetto all’attuale normativa, tra cui, per esempio, la cancellazione dell’automatico differimento della pena per le donne incinte o con un figlio che avesse meno di un anno, così come previsto dall’articolo 146 del codice penale. Di qui, naturalmente, la decisione del Pd di ritirare il disegno di legge.

Le argomentazioni del centrodestra sono riassumibili nelle seguente citazioni: “Essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere”, hanno spiegato i parlamentari della Lega Jacopo Morrone e Ingrid Bisa, componenti della Commissione Giustizia alla Camera.

Questa è stata la controproposta: fare di tutta l’erba un fascio, adottare una normativa applicabile meccanicamente per generalia, senza un attento esame del singolo caso concreto e della singola persona.

Nessuna ombra di dubbio sul fatto che il ricorso strumentale al beneficio del differimento della pena, per procedere indisturbati nella commissione di atti illeciti, sia un fenomeno da affrontare e contrastare. Di certo però la soluzione non è quella di rendere destinatari di un provvedimento ad hoc anche donne e bambini che nulla c’entrano con il fenomeno in questione.

In definitiva, un disegno di legge che andava a promuovere il modello della casa famiglia protetta è stato bloccato a causa di emendamenti poco inerenti con il tema oggetto d’esame e recanti il sottinteso messaggio che, se la legge fosse passata, lo avrebbe fatto solo in presenza di elementi peggiorativi della normativa vigente.

Una soluzione può risiedere, come sempre, nel mezzo, nell’equilibrio, nell’adozione di un regime che, seppur restrittivo della libertà personale di una madre, sia connotato da una maggiore considerazione e tutela del suo rapporto con il figlio, come ben si evince dalle parole di Susanna Marietti, dell’Associazione Antigone: “Sarebbe anticostituzionale dire che una madre che delinque ha per legge un’impunità precostituita. Così si violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Bisogna però sforzarsi di trovare alternative al carcere, lavorando caso per caso sulle donne con bambini, la cui pericolosità sociale non è di solito così alta da non consentire di evitare il carcere”.

Clara Molinari
Studentessa di giurisprudenza, scrivo per dare ascolto ai miei pensieri e farli dialogare con l’esterno. Cinema e lettura sono le mie fonti di emozioni e conoscenza; la curiosità è ciò che lega il tutto.

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