Del: 13 Maggio 2023 Di: Giulia Perelli Commenti: 0
Il viaggio bestiale. In cerca del sogno americano sul tetto di un treno

L’ultimo report disponibile ci dice che solo nel novembre 2022 la polizia americana è entrata in contatto con 206.239 migranti sul confine con il Messico. Questi numeri dimostrano che il fenomeno migratorio centro americano ha dimensioni gigantesche: questo – dopo marzo 2022 quando si registrarono 224.370 encounters – è il dato più elevato degli ultimi 22 anni.

Gran parte dei migranti proviene da Guatemala, Honduras, San Salvador, molti meno provengono dal territorio messicano. Certamente, la sproporzione tra centro americani e messicani si acuisce se si considerano i tentativi di accesso agli Stati Uniti tramite passaggi illegali. Una delle modalità di attraversamento della frontiera è l’utilizzo di un famigerato treno merci, soprannominato “la bestia” o “tren de la muerte” o, ancora, “tren de los desconosidos”. Inizia la sua corsa nello stato del Chiapas, nel profondo sud del Messico, al confine con il Guatemala.

Qui uomini, donne e bambini alla ricerca di salvezza dalla povertà latente, si arrampicano sul convoglio e iniziano un viaggio che li conduce verso la terra promessa: gli Stati Uniti.

Non viaggiano su sedili, non esistono classi, tavolini e controlli del biglietto: si ancorano sul tetto del treno, non possono addormentarsi, cadrebbero sulle rotaie, per finire maciullati dal treno; non portano quasi nulla con sé, vengono da niente e corrono verso l’utopica ricchezza americana. Viaggiando in questo modo i migranti tentano di evitare i checkpoint dell’immigrazione e i centri di detenzione sparsi per tutto il territorio e possono farlo gratuitamente, evitando di affidarsi ai “mercanti di uomini” che consentono l’attraversamento della frontiera dietro il pagamento di circa 3000 dollari, una cifra irraggiungibile per la maggior parte dei migranti.

Un prezzo per questa tratta, tuttavia, esiste ed è più alto di qualsiasi altro biglietto ferroviario: il numero di vittime è disumano, su 25 migranti partiti si stima che solo 5 raggiungano gli Stati Uniti. Su quel treno salgono mediamente 300 persone al giorno. Il percorso è cruento: lungo la via i migranti vengono attaccati dai coyote, finti poliziotti messicani, spogliati dei – già esigui – averi, violentati, deportati in carceri sovraffollate, spesso rimpatriati dopo essere stati catturati; il rischio proviene anche dal treno stesso che con la sua corsa folle non si ferma davanti a nessun corpo, travolge, amputa, scaraventa fuori bordo i passeggeri appollaiati sulla sua sommità. Ad affrontare questo viaggio spesso sono bambini e bambine, il 5% di loro viaggia solo; il documentario Which way home (Rebecca Cammisa, 2009) ha avuto il coraggio di mostrare proprio questo aspetto, intervistando alcuni minori che tentavano la traversata. Kevin e Fito hanno 14 e 13 anni, viaggiano contando solo su sé stessi, un materassino per dormire, il sogno americano negli occhi.

«Ti amo tanto mamma, non voglio vederti soffrire, vado negli Stati Uniti a lavorare» scrive Juan Carlos, 13 anni, nella lettera che ha posato sul letto di casa prima di partire. Fito, alla domanda «chi vorresti essere?», risponde: «non so, qualsiasi persona». Da un lato madri disperate che pur di migliorare la qualità di vita dei figli, li guardano affrontare un viaggio mortale, perdendo le loro tracce; dice, una donna intervistata, oggi residente negli USA, sopravvissuta alla “bestia”: «non voglio toglierli (ai figli, nda) la possibilità di una nuova vita». Dall’altra, la prova di una situazione tanto drammatica da disumanizzare gli stessi protagonisti che con il viaggio sentono di diventare umani.

A raccontare la traversata è anche il libro Migrantes. Clandestino verso il sogno americano (Bfs edizioni, 2015) di Flaviano Bianchini che, fingendosi un migrante peruviano, ha raggiunto Tucson (US) partendo da Tecun Uman (Guatemala), viaggiando sulla bestia senza passaporto, aggrappato a quel treno merci, attraversando il Messico intero, preda dei coyotes, dei polleros, di gruppi come il cartello di Sinaloa, per aprirci gli occhi su quanto avviene quotidianamente in centro america.

Flaviano spedisce i suoi documenti a un amico, assume l’identità di un migrante peruviano, Aymar Blanco e con qualche soldo nel doppio-fondo delle mutande e una maglia del Barcellona si mischia agli sventurati.  «Qualcuno doveva pur raccontare al mondo quella situazione. Io ero nelle condizioni di poterlo fare e l’ho fatto. In un certo senso non potevo sottrarmi» dice in un’intervista. Migrantes è un libro pieno di verità, nudo nella sua onestà: quando finalmente il protagonista giunge a Tucson il passaporto arriva dopo 24 ore e di questi ultimi momenti dice: «Quelle 24 ore le ho passate in un parco pubblico. Poi ho finalmente ricevuto il passaporto e con esso la carta di credito. La maggior parte della gente a cui lo ho raccontato mi ha detto: “sei andato a farti una doccia!”. La mia risposta è “si vede che non hai mai avuto fame”. La prima cosa che ho fatto una volta recuperati i soldi è andare a mangiare».

Uno dei principali problemi, infatti, è recuperare viveri durante il viaggio: nel tempo sono nati alcuni rifugi lungo la tratta percorsa dal treno che offrono rifornimento, letti e assistenza medica.

House of Migrants, fondata da Memo Ramirez Garduza, è una di questi: qui nessuno incoraggia i viaggiatori a proseguire, «il Messico è il passaggio della morte», l’intero territorio è una frontiera continua a causa dell’azione della polizia, delle maras e dei cartelli, della fame e dello stesso treno, il tuo migliore amico o il tuo peggior nemico. Nel 2008, la Corte Suprema messicana aveva stabilito che chiunque gestisse rifugi senza una prospettiva di guadagno non può essere considerato colpevole di traffico di esseri umani: questa politica non permette lo sviluppo di ulteriori centri di assistenza, visto anche lo stato di povertà che imperversa nelle zone rurali del Messico. In questo clima di sconforto, un fenomeno riaccende la speranza: nel comune di Amatlan, precisamente nella frazione A Patrona, dal 1994, un gruppo di donne chiamato Las Patronas lancia sul treno in corsa viveri e acqua ogni giorno, assicurando ai viaggiatori la sopravvivenza, salvandoli dagli stenti.

Dal treno, 30 anni fa, si levò un grido d’aiuto: «madre abbiamo fame» e Norma Romero e sua madre risposero senza indugio lanciando la spesa che trasportavano, aprendo la via a una coraggiosa azione quotidiana. Il primo giorno furono 30 porzioni, oggi sono centinaia, cucinate in una piccola stanza nei pressi dei binari, 14 donne, senza risorse, senza fondi, senza appoggi statali. Solo un amore spropositato: «Ci chiamavano pazze ma a noi non importava. Avevamo capito che erano persone con un sogno e desideravamo partecipare a quel sogno, appoggiandoli».

Conoscono il problema, sono consapevoli della totale assenza di opportunità che offre il Paese, della disperazione. Nel corso degli anni hanno perseverato nella loro missione, partecipando anche a corsi formativi sui diritti umani per difendere chi necessita aiuto, girando il mondo per portare in luce l’enorme problema e per cercare sostegno: quando Norma conta le porzioni di riso cucinate crede sia una benedizione, invece è frutto del suo impegno e dell’opera di solidarietà da lei stessa avviata; dice: «siamo solo un gruppo di donne» ma quel gruppo di donne ha salvato innumerevoli vite. Hanno anche vinto numerosi premi come il National Human Rights Award nel 2013.

L’aspetto più preoccupante di tutta questa vicenda è la posizione degli altri Stati: l’indifferenza dell’Occidente, il coinvolgimento innegabile degli Stati Uniti, la repressione messicana.

Ed è proprio a proposito dei rapporti tra queste due nazioni che emergono i punti più critici: il 2 maggio, Messico e USA hanno presentato un accordo per gestire e contenere i flussi migratori dai paesi dell’America Latina. Si attendono altri sviluppi in merito: l’11 maggio è scaduto il famigerato “Titolo 42”, la misura trumpiana che attuava espulsioni sommarie degli immigrati latini, poi prorogata dal presidente Biden. Nel nuovo accordo si prevede che il Messico si impegnerà ad accogliere 30mila degli espulsi dagli Stati Uniti, a cadenza mensile. Gli Stati Uniti si impegnano ad accoglierne altrettanti ma solo se gli interessati entrino in modo regolare e abbiano sponsor sul territorio. Queste misure sono a dir poco ridicole, prive di ogni contatto con la situazione reale, misure ostative (d’ostacolo), repressive del fenomeno migratorio, non certo di supporto nel fronteggiare quella che è – e deve essere considerata – un’emergenza umanitaria.

A peggiorare il panorama il Messico, tramite altre convenzioni, riceve da questi dai 4 ai 6 miliardi di dollari l’anno per controllare l’immigrazione dal territorio di provenienza: così, l’intero suolo messicano diventa una frontiera, terribilmente pericolosa, dove i metodi adottati non rispettano nessuno dei diritti umani fondamentali: la violenza è sistematica, la rapine anche. Flaviano Bianchini in un’intervista racconta: «Io sono stato fermato: non mi è stato letto nessun capo di imputazione. Sono stato portato in una cella insieme ad altri; siamo stati letteralmente saccheggiati dei nostri soldi e chiusi in quaranta persone in una cella di quattro metri per quattro. Io sono stato derubato quattro volte nel corso del viaggio».

Nel documentario Which way home anche i bambini raccontano di essere vittima di brutalità: se catturati sono detenuti in carceri sovraffollate, poi rimpatriati nel proprio Stato. Come sottolineato nel report di Amnesty sul flusso migratorio attraverso il Messico questo scambio monetario fa sorgere una questione rilevante: in base alle norme di diritto internazionale, i governi hanno l’obbligo di utilizzare i loro poteri al fine di assicurare che i diritti umani siano rispettati, non solo nel senso di assicurare che strumenti e misure adottati si adeguino a standard umanitari, (ma) anche agendo con due diligence, intesa come la necessità di fronteggiare gli abusi contro i diritti fondamentali, perpetrati da privati individui o gruppi. Sintomi di una carenza di applicazione di questo principio sono: «failure to punish or prevent the abuses; failure by officials to intervene; the absence of legal prohibition or other measures to eradicate the abuses; and the failure to provide reparation or compensation to victims». Tra questi punti, nel caso messicano, ha particolare rilevanza il generale fallimento nel punire e prevenire gli abusi che, anzi, vengono messi in atto dallo Stato stesso. Inoltre, quando uno Stato è a conoscenza, o si suppone lo sia, delle violazioni perpetrate e non operano in modo appropriato anche sul fronte della prevenzione, devono essere considerati responsabili, tanto quanto i diretti autori: «the principle of due diligence includes obligations to prevent human rights violations, investigate and punish them when they occur, and provide redress and support services for victims», rimarca il Report di Amnesty.

Come ha rimarcato Flaviano Bianchini:

«Io credo che barriere, muri, pattugliamenti, frontiere siano tutti inutili. Quello che si sta tentando di fermare è un processo naturale che è stato costante per tutta la storia dell’umanità. L’essere umano è sempre migrato, si è sempre spostato. Due milioni di anni fa siamo scesi dagli alberi e ci siamo messi a camminare per spostarci su grandi distanze, per migrare. E abbiamo continuato a farlo per tutta la storia della civiltà. Il mediterraneo è stata la culla della civiltà moderna per il semplice fatto che decine di popoli diversi lo solcavano trasportando e connettendo geni e idee. E gli Stati Uniti, quello che viene considerato il Paese più moderno del pianeta nasce da una migrazione continua».

La drammaticità del fenomeno migratorio centro americano dimostra che ostacolare il flusso genera soltanto la formazione di metodi alternativi pericolosi, disumanizzanti. Chissà cosa ci spaventa della solidarietà, dell’aiuto reciproco; chissà cosa ci spaventa dell’umanità che è poi tutta uguale, indipendentemente dalla precondizione sociale, dal patrimonio, dalla localizzazione geografica. Chissà perché dobbiamo essere così famelici con il vicino in difficoltà, chissà perché non possiamo compartire la nostra felicità. In fondo, siamo tutti uomini in cerca di una vita migliore. Chissà perché per ottenerla dobbiamo schiacciare, denigrare, umiliare.

Giulia Perelli
Vivo di viaggi, di libri e di esperienze. Scrivo di tutto quello che vedo e sono un moto perpetuo. Sono una studentessa di giurisprudenza e di tutto quello che mi capita di voler imparare. Sono l’artista meno artista di sempre. Nella vita devo solo poter raccontare, parlare e fotografare.

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