Cosa vediamo quando pensiamo al nostro futuro, al futuro dell’umanità e del pianeta? La nostra generazione è stata abituata fin da subito ad avere poco chiara la risposta a questa domanda, ma comunque non presupponendo nulla di buono. Eppure, c’è voluto tempo per convincere tutti dell’idea che il pianeta davvero sia sulla via dell’autodistruzione. I nostri stili di vita devono cambiare: ma quanto?
Tra tutti i pensatori che si sono occupati di immaginare un futuro diverso, osando e alle volte sognando troppo in grande, si colloca anche Donna Haraway. Eco-femminista, professoressa emerita all’università della California – famosa per il rivoluzionario manifesto Femminismo Cyborg – ha pubblicato Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto nel 2016.
Dal 27 al 30 aprile, al teatro Piccolo di Milano, si è tenuto l’ultimo spettacolo di Marta Cuscunà, ispirato liberamente al volume di Haraway ed in particolare al capitolo finale, intitolato Storia delle Camille.
Il libro è ambientato in un futuro non troppo lontano, in cui l’umanità unisce le proprie forze ad altre specie per salvare la Terra e prendersene meglio cura. Quelle che nel libro di Haraway sono “comunità del compost”, vengono interpretate da Cuscunà come Earthbound: il neologismo fu inventato da Bruno Latour proprio per meglio rendere l’idea del nuovo rapporto che gli esseri umani devono avere col pianeta.
Gli Earthbound, infatti, sono umani cui sono stati impiantati geni di creature in via d’estinzione, con il duplice scopo di conservarne la specie superando la frattura tra Uomo e Natura tipica dell’Antropocene. Per questa comunità, la nascita di un bambino è una scelta collettiva, rara e preziosa, di cui l’intera comunità è responsabile: a ogni bambino vengono assegnati almeno tre genitori.
Con l’ascesa del sipario, il palco si illumina con luce fioca, mostrando al pubblico un’alba artificiale che trasmette pacifica tensione. La voce di Gaia, una specie di [Amazon] Alexa super evoluta, introduce il pubblico a ciò che sta avvenendo: essa fa parte di un sistema di intelligenze collettivo che ha come obiettivo quello di regolare il funzionamento della comunità. Al momento, Gaia si sta occupando di ristabilire le forze di uno dei membri della comunità, Camille 1, che si avvicina alla fine della sua esperienza terrena ed è colta da un inguaribile “disturbo antropico”.
In parallelo, altre due Camille entrano in scena – sono creature animatroniche progettate da Paola Villani e ispirate alle opere dell’artista australiana Patricia Piccinini, che inquietano ma sanno far sorridere.
Portano avanti tra loro un dialogo buffissimo: guardano il pubblico e si stupiscono di questa comunità di umani – più grande di tutte quelle che avevano mai visto – che fa un’attività strana… Un’attività di comunità. Così, quando le altre intelligenze artificiali collegate a Gaia annunciano che il tempo si è fatto adatto per poter considerare la procreazione, le Camille cominciano subito ad organizzarsi per poter creare la nuova vita.
All’interno di questa storia apparentemente caotica e comica, si celano importanti riflessioni in un primo momento difficili da cogliere. Le prime e più evidenti sono quelle sull’idea di maternità, sul bisogno che, come esseri umani, abbiamo di creare vita in un pianeta che ormai ne ha sempre meno da offrire e che soffre sempre più dell’aumento della nostra spesa (con relativi consumi). Per questo Haraway elaborò uno slogan tanto radicale quanto d’impatto: “Make kin, not babies” – create rapporti, non bambini.
È una lezione che impariamo attraverso queste Camille così disperate e fragili nel loro momento più drammatico: quest’attività di gruppo che noi umani siamo soliti fare, erroneamente senza darvi peso, cela in sé ciò che ci rende tali e ciò che dovremmo sempre mettere al primo posto.
Vedere uno spettacolo come questo in questo periodo significa anche riflettere sul futuro delle tecnologie e del loro possibile utilizzo per la battaglia ecologica – nonostante sembri ormai sempre più difficile fare andare di pari passo progresso e bene comune.
Gaia è parte di un sistema che non concepisce l’esperienza individuale, che esiste solo per progredire e far progredire la comunità.
Non è umana, ma è in grado di instaurare relazioni strette e comincia piano piano ad essere influenzata dall’esperienza della prima Camille. Quando succede, si spaventa, non capisce: perché un essere non umano può cominciare ad avere desideri umani che esulano dal mero miglioramento del proprio funzionamento? È la saggia seppur debole Camille 1 a spiegarle una delle lezioni più importanti della tecnologia, così ovvia eppure così spesso dimenticata.
Vi è una differenza tra bug – malfunzionamento di sistema – e bias – influenze esterne sul sistema. Queste due cause diverse possono portare ad un risultato uguale, ma si trovano ai poli opposti. Quello che Gaia sperimenta è un bias: la tecnologia è figlia dell’uomo e come tale ne eredita i limiti cognitivi. Esattamente come l’uomo, la tecnologia, per quanto intelligente potrà diventare, farà sempre fatica a riconoscere queste influenze.
Esattamente come le altre Camille, Gaia, progettata per il progresso e la conservazione dell’equilibrio comune, si trova così a dover fare i conti con i suoi desideri e con quelle che sono invece le sue possibilità. Con tutta la sua disumana intelligenza, si ritrova esattamente come loro a doversi fermare e doversi ricordare di quella lezione che solo una specie primitiva e limitata come quella umana può insegnare.
Rispetto al capitolo di Haraway, lo spettacolo è sicuramente più divertente e leggero.
Cuscunà si riconferma un’incredibile talento, è quasi impossibile pensare che sul palco ci sia stata, fin dall’inizio, solo lei. Nonostante le risate strappate e la gioia nel sentire gli infiniti applausi per la donna che ha avuto così tanti corpi e volti nel corso dell’opera, è impossibile non ritrovarsi un po’ sbigottiti. È in questa – molto umana – condizione di instabilità che si pensa davvero, che ci si mette in dubbio. Non c’è cosa più umana del porsi domande sulla propria umanità; non c’è cosa più umana dell’aver un po’ paura delle risposte.