Del: 30 Giugno 2023 Di: Elisa Basilico Commenti: 0
Pride Month. Rainbow washing e Rainbow capitalism

Siamo giunti alla fine di un altro Pride Month ed è solo questione di ore perché i loghi delle aziende svestano il costume arcobaleno per tornare alla solita routine. Perché dunque prendersi il disturbo in primo luogo?

L’utilizzo d’immagini e simboli a somiglianza della famosa bandiera LGBTQ+ è una tendenza sempre più osservata nei grandi marchi internazionali, che vedono giugno come un’occasione per promuovere la propria attività e guadagnare così, almeno di faccia, una certa credibilità verso i consumatori senza però lavorare attivamente per sostenere la comunità a cui si indirizzano.

Se questo mese dovrebbe rappresentare una commemorazione dei moti di Stonewall del 1969, che hanno dato inizio al moderno movimento per i diritti LGBTQ+, il suo significato originale di lotta sociale diviene però sempre più difficile da riconoscere, tra montagne d’abbigliamento, cinturini dell’orologio, vodka e addirittura hamburger (si ricordi la recente campagna di Burger King per il Proud Whopper, panino con involucro colorato disponibile, tra l’altro, in sole due location di Milano).

Il rainbow-washing è proprio questo: 

rendere guadagno commerciale un simbolo collettivo di forte significato sociale, politico e culturale; un atto performativo e forse paternalistico di supporto, che sa tanto di contentino ceduto a fatica e non corrisponde a un tangibile contributo alla popolazione queer.

Molte compagnie «stanno dirottando l’evento […] per il valore commerciale che possiede» come ha affermato Diane Primo, fondatrice della società di PR e marketing Purpose Brand Agency. «Cioè, ti vendo qualcosa, e tu mi dai dei soldi».

Il potere d’acquisto degli individui LGBTQ+ (chiamato negli Stati Uniti “dollaro rosa”) corrisponde infatti a oltre 1 trilione di euro ed è perciò considerato un mercato in continua crescita per le aziende, al fine di aumentare visibilità e profitti. Di primo impatto trasparirebbe quindi l’idea che chi è LGBTQ+ (uomini gay in particolare) abbia un sacco di soldi da spendere per i festeggiamenti del Pride.

Questo è vero per alcuni, ma è un mito per la maggior parte, in quanto non tiene in conto delle forti differenze di classe che dividono come tutte questa comunità: un rapporto del 2016 del Williams Institute ha di fatto osservato che le persone queer affrontano «un rischio di essere sotto la soglia di povertà che nel migliore dei casi è pari […] nel peggiore è assai maggiore» a chi è cis-etero.

Le statistiche diventano più disastrose se si aggiungono come fattori l’etnia e l’identità di genere. Ma questo è forse il nocciolo del problema: le aziende, per loro natura, vogliono far soldi e quindi si concentrano su una minoranza benestante a scapito dei lavoratori e dei meno abbienti.

La mercificazione e la monetizzazione della bandiera arcobaleno, un simbolo pubblico e ideologico trasformato in sticker, è un atto dannoso perché è in fondo un gesto di convenienza revocabile all’occasione: 

dove il mercato dimostra di non accogliere una simile strategia di marketing, ecco che il supporto sparisce.

Famoso il caso dell’azienda automobilistica BMW, che da sempre evita di modificare il logo in alcune delle sue pagine Instagram, ad esempio BMW Arabia Saudita, Indonesia e, quest’anno, anche la pagina italiana: si tratta di Paesi che criminalizzano o discriminano l’omosessualità in veste governativa e, pertanto, non risultano profittabili in questo settore.

Il messaggio è chiaro: vogliamo aiutarti a celebrare la tua identità – e vogliamo che tu restituisca questo favore comprando i nostri prodotti. Questo non vuol dire che la popolarità e l’importanza del Pride non debbano essere riconosciute, perché riflettono i progressi fatti dalla comunità per poter esistere e perché servono da rimando alle lotte del passato e del presente.

Tuttavia, la prossima volta che vediamo un’azienda cambiare il suo logo con un breve messaggio di inclusività, possiamo porci le seguenti domande:

Qual è la motivazione dell’azienda? 

È questa una posizione coerente con altre decisioni precedenti?

Che dire della politica aziendale: è inclusiva o sfrutta altre fasce demografiche e la classe lavorativa perché tu possa avere il prodotto che desideri? 

Scrive per contro il giornalista Brian Broome, nella colonna Opinioni del Washington Post: «Essere rappresentati conta anche se il sostegno viene nella forma d’una T-shirt arcobaleno per cani. In qualche posto, quella maglietta sta aiutando qualcuno. Quindi, anche se non comprerò merce arcobaleno, sono contento che sia lì esposta nei negozi di Target [catena statunitense di grandi magazzini, ndr]». 
Quando però un vestito colorato è l’unica forma di riconoscimento che la società si degna di darti, quanto ancora può valere? E quanto può continuare, se decidi di non comprare più?

Elisa Basilico

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