In occasione del ventesimo anniversario dalla fondazione di Vulcano Statale, il giornale degli studenti dell’Università Statale di Milano, abbiamo pensato alla creazione di un numero speciale, di carta, che a partire da questa settimana potrete trovare nelle diverse sedi dell’Ateneo, oltre che leggere giorno per giorno sul nostro sito. Per ulteriori informazioni, seguici sulla nostra pagina Ig: @vulcanostatale.
Il Progetto Carcere della Statale di Milano nasce alla fine del 2015, per iniziativa di un docente del Dipartimento di Filosofia, il Prof. Stefano Simonetta, con l’obiettivo di agevolare l’esercizio del diritto allo studio universitario da parte delle persone private della libertà. Con la creazione di una rete di docenti e di studenti esterni impegnati nell’attività di tutoraggio nei confronti degli studenti ristretti nelle carceri di Milano Bollate, Milano Opera e altri istituti milanesi e lombardi, il Progetto Carcere è diventato in pochi anni un importante punto di riferimento a livello nazionale. Abbiamo incontrato Stefano Simonetta per farci raccontare la realtà del Progetto Carcere nel suo interno e nei risvolti che ha sull’esterno.
Quando e con quali scopi nasce Progetto Carcere?
Il progetto nasce nel 2015, dopo che sono andato in carcere per far sostenere degli esami universitari ad alcuni studenti interni: è stata un’esperienza molto forte, soprattutto quando ho conosciuto uno studente che si è distinto per la sua preparazione e curiosità. Alla fine dell’esame gli ho chiesto come facesse a studiare e quanto fosse per lui faticoso, a causa dell’assoluta assenza di silenzio e di spazio, e per via del continuo giudizio negativo da parte degli altri ragazzi ristretti. Colpito da questo dialogo con lui e dalle sue risposte, sono andato a parlare con il precedente rettore della Statale, il professor Vago, sottolineando l’assenza di un accordo con il sistema penitenziario e facendo presente la necessità di garantire il diritto allo studio anche a questi studenti, stipulando una convenzione che si sarebbe dovuta definire insieme al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP).
Il problema maggiore era chiaramente quello economico: all’inizio, non vi era alcuna agevolazione per queste persone, che erano costrette a pagare nella loro totalità le tasse universitarie, lavorando di giorno e studiando di notte. Successivamente, grazie a Luigi Pagano, ex direttore del carcere di San Vittore, è stato possibile accordarci per garantire la gratuità degli studi agli studenti in esecuzione penale: oggi i detenuti iscritti alla nostra Università pagano solo la marca da bollo.
È stato difficile creare un legame tra studenti interni e studenti esterni? Come è possibile trovare un punto di equilibrio che favorisca il dialogo tra interno ed esterno senza che l’uno finisca per sovrastare e soffocare l’altro?
È stato difficile e non lo è stato al tempo stesso. Da un lato, infatti, è un equilibrio che si trova spontaneamente, sia a livello di gruppo che a livello di singoli; dall’altro, spesso i rapporti tra studenti esterni e interni sono di enorme squilibrio, a partire dalla distanza che intercorre tra le rispettive esperienze socioeconomiche e culturali. Senza dubbio il passo più difficile per i ragazzi esterni è riuscire a superare i pregiudizi, ad avvicinarsi a queste persone non come autori di reato ma come esseri umani con cui studiare, sapendo però al contempo mantenere un grado di separazione, che è la consapevolezza di non dover abbassare totalmente le difese. Dal canto loro i detenuti hanno sempre un atteggiamento di riguardo nei confronti dei ragazzi: il solo fatto che qualcuno venga da fuori per loro ha un effetto talmente forte e intenso che assumono fin da subito un atteggiamento di assoluto rispetto e attenzione nei confronti dei loro tutor. Quindi sì, è possibile trovare un equilibrio, e ognuno cerca e scopre il suo.
Il valore dello studio ha una forma tanto intima quanto poliedrica: per alcuni è uno strumento di rivalsa, per altri una fonte di conoscenza e di risposte; per altri ancora rappresenta un modo per dare un senso al proprio tempo e per riempire il non-luogo della propria reclusione. In questa prospettiva, la vostra offerta formativa è riuscita a rispondere alle più diverse esigenze e aspettative che i detenuti nutrivano nei confronti dello studio?
Non è facile rispondere a questa domanda, bisognerebbe chiederlo a loro. Molti ci dicono che l’incontro con i libri e lo studio è stato fondamentale. Cito la frase di un detenuto per reati gravissimi di mafia: «Da quando hai portato i libri qui, non abbiamo più un alibi per continuare a delinquere», e questo lo trovo un bellissimo omaggio ai libri, più che al progetto. Spesso gli educatori e i poliziotti ci dicono che molti di loro seguono le lezioni non solo per istruirsi, ma semplicemente per distrarsi: la verità è che comunque, con la possibilità di studiare, offriamo loro l’occasione di conoscere e interessarsi a tematiche nuove e stimolanti.
Il carcere ha la funzione di creare una separazione tra interno ed esterno che possa in qualche modo ricucire quelle fratture che gli autori di reati hanno creato nella società. Fino a che punto può spingersi, quindi, il tentativo di riconciliare interno ed esterno, in linea con la funzione rieducativa del carcere, senza che le pretese di “punizione” e sicurezza avanzate dalla società siano del tutto frustrate?
L’obiettivo che il nostro progetto persegue è fare in modo che le pene siano uno strumento per il ritorno e il reinserimento in società. In questo senso, lo studio e l’incontro con persone esterne ogni settimana rappresentano una sorta di anticipazione del ritorno all’esterno. È chiaro, però, che l’esigenza della sicurezza c’è e, a tal proposito, quello che dico sempre è che anche in termini di sicurezza è molto meglio che una persona non venga tenuta in gabbia come un animale, con il rischio che il giorno in cui dovesse uscire sia ancora più arrabbiata di quando è entrata, ma che abbia invece il migliore dei trattamenti possibili, compreso lo studio, perché possibilmente esca con qualche strumento in più, per ridurre la possibilità che ricominci a delinquere. Per di più, il fatto di incontrarsi così spesso con persone esterne toglie in parte ai detenuti quella sensazione che fuori tutti li odino, che per il mondo esterno siano soltanto un buco nero che deve scomparire. Proprio per questo penso che il tentativo di riconciliare interno ed esterno sia importante anche dal punto di vista della sicurezza: i detenuti che hanno ricevuto un trattamento migliore, o quantomeno “umano”, escono dalle carceri con meno rabbia, talvolta addirittura senza.
Lo scontro tra giustizialismo e garantismo è una costante che immancabilmente si ripresenta, a intervalli diversi e con diverso fervore, al centro del dibattito pubblico e della dottrina giuridica. È tuttavia necessario, accanto ai discorsi di natura ideologica, prestare attenzione anche ad analisi di carattere più pratico, e in un certo senso utilitaristico: in Italia la recidiva, nei tre anni successivi all’uscita dal carcere, tocca mediamente punte del 40%, mentre all’uscita dal carcere di Bollate, istituto aderente al “modello aperto” di carcere, questo dato diminuisce di sei punti percentuali. Perché allora il concetto di scopo rieducativo della pena e quello di “carcere aperto” faticano ancora così tanto a divenire parte della forma mentis collettiva, anche di fronte all’evidenza che ci mostrano i dati?
La mia impressione è che valga per questo dato quello che vale per moltissimi altri, cioè che la scienza non gode di buona popolarità. Ormai, infatti, sulla maggior parte delle questioni trova immancabilmente spazio la retorica del «Lo dicono loro ma non è vero, io ho letto su Internet che non è così». E questo vale per il riscaldamento globale, per i vaccini, e non di meno per la questione della recidiva: per una voce c’è sempre una contro-voce, che nella maggior parte dei casi non gode di nessuna qualità scientifica, che afferma con risoluta sicurezza la falsità di quanto riportano i dati scientifici. Pertanto, nonostante l’evidenza ci mostri che riservare ai detenuti un trattamento migliore, come quello contemplato in Costituzione, significhi anche parlare di sicurezza, quella nota contro-voce non indugia a farsi sentire: «Non è vero, i detenuti sono tutti uguali, fingono solo di essere cambiati o migliorati ma in realtà non lo sono». Temo quindi che la battaglia sia molto difficile, a partire da quella volta a soppiantare le tante contro-voci, così da ridare credito alla scienza, o quantomeno all’evidenza.