Del: 21 Giugno 2023 Di: Michele Baboni Commenti: 0
Radici. La legge Basaglia e la chiusura dei manicomi

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.


Il tema del disagio psicologico, nonostante i dati sempre più allarmanti sotto molteplici punti di vista, resta ad oggi di poca rilevanza all’interno delle istituzioni italiane e su cui si investono ancora troppe poche risorse. Negli ultimi anni la spesa annuale in salute mentale  si è infatti aggirata al 3% sul totale del Fondo Sanitario Nazionale, con un trend in calo a fronte di un aumento delle risorse del fondo. Inoltre, nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) non sono presenti riferimenti più o meno espliciti al tema, il che fa presumere che non saranno previsti ulteriori aumenti di fondi rispetto a quanto viene speso attualmente.

Tuttavia, se ad oggi il parlamento limita la sua azione a poche iniziative come il bonus psicologo, di cui peraltro ha beneficiato solo una persona su nove tra i richiedenti, in passato fu proprio il parlamento italiano che, nel 1978, approvò uno dei disegni di legge più pionieristici dell’epoca, che riformò profondamente il modo di trattare la malattia mentale e che ancora oggi, al netto delle discussioni in merito, rimane in vigore: stiamo parlando della legge 109 del 1978, detta anche “Legge Basaglia” perché ispirata dallo psichiatra Franco Basaglia, che rese l’Italia uno dei primi Paesi del mondo occidentale a chiudere i manicomi e che permise di ridare a moltissime persone una dignità che era andata persa.

Ma per capire quale fosse all’epoca la situazione a livello sanitario ed istituzionale, e per comprendere quanto sia stata rilevante la figura di Basaglia, è necessario fare un passo indietro e analizzare il contesto in cui i malati mentali venivano trattati.

Anzitutto, è necessario sottolineare che, fino a pochi anni prima della Legge Basaglia, nella concezione di “malati” o “matti” potevano rientrare una vasta gamma di persone, che potevano spaziare dal disturbo dell’umore alla totale disabilità fisico-cognitiva. I malati, detti anche “alienati di mente”, venivano internati nei manicomi (o frenocomi), che in Italia esistevano dal XIX secolo ed arrivarono ad essere più di 70. Si trattava spesso di luoghi gestiti dalla Chiesa o direttamente da singoli ordini ecclesiastici, in cui si trovava uno spaccato molto eterogeneo di umanità: oltre agli alienati mentali si trovavano infatti persone non malate e che oggi consideriamo sane, come gli omosessuali, le prostitute o le donne adultere

La materia era disciplinata in particolare dalla legge 36 del 1904, che dettava i criteri necessari per il ricovero dei pazienti e le ragioni che potevano portare a tale misura. La legge stabiliva che, per far entrare una persona in manicomio, i familiari o i tutori del paziente dovevano portare al tribunale di riferimento una richiesta formale, ed era sufficiente che venissero allegati un certificato medico e un atto di notorietà che attestassero i motivi per cui era necessario il provvedimento. 

Per quanto riguarda invece il criterio secondo cui le autorità decidevano se accogliere o meno le richieste, il decreto regio del 1904 diceva: «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». In queste strutture finivano dunque tutte quelle persone che assumevano comportamenti classificabili come socialmente devianti, a prescindere dall’età o dalla condizione e non in qualità di malati, ma in quanto soggetti pericolosi o scandalosi per la società o le famiglie di appartenenza. 

E’ importante sottolineare che nei frenocomi finivano moltissime persone, il che rendeva i manicomi dei luoghi spesso sovraffollati e con pessime condizioni igienico-sanitarie: 

in particolare, gli internati aumentarono considerevolmente durante il periodo fascista, in cui gli ospedali psichiatrici divennero una delle tante armi del regime per reprimere il dissenso politico
Purtroppo, i manicomi furono tutt’altro che dei luoghi terapeutici e di recupero dei pazienti. 

I soggetti che venivano internati venivano infatti privati di ogni avere e, come prescriveva l’art. 604 del Codice di Procedura Penale, venivano iscritti al casellario giudiziario, il che comportava la perdita di ogni diritto civile. In questo modo, i frenocomi divenivano in realtà dei luoghi dove i pazienti potevano rimanere per tutta la loro esistenza, in condizioni di vita gravemente limitanti e dimenticati dal resto della società. La reale funzione dei manicomi, ovvero quella di recludere i soggetti problematici, è ancora più evidente se si considerano le modalità di trattamento dei disturbi, che molto spesso, com’è noto, sfociavano in vere e proprie torture

Le tecniche utilizzate maggiormente, come l’elettroshock, il coma insulinico  e perfino la lobotomia, erano infatti procedure estremamente dolorose e atroci, che arrivavano a generare profondissimi traumi in chi le subiva, molto spesso in maniera reiterata e contro la propria volontà. Le conseguenze sui pazienti erano inoltre gravissime, e potevano spaziare dall’insorgenza di crisi epilettiche fino ai casi in cui, a seguito delle lobotomie, i soggetti non erano più in grado di svolgere in autonomia le funzioni vitali più basilari.

Molto spesso, solo gli operatori sanitari sapevano ciò che accadeva all’interno di queste istituzioni, quindi la situazione rimase invariata fino agli anni ‘60, quando una nuova generazione di psichiatri, in cui rientrava Franco Basaglia, iniziò a lavorare all’interno degli istituti psichiatrici. 

In quegli anni uscì inoltre il documentario Un giorno al manicomio, che portò per la prima volta nelle case degli italiani la realtà dell’ospedale psichiatrico, generando un dibattito pubblico che venne ripreso anche durante le proteste del ‘68. 

Franco Basaglia, che in quegli anni lavorava come direttore del manicomio di Gorizia, ridisegnò il manicomio in una prospettiva nonviolenta, orizzontale e anti-istituzionale, trasformandolo insieme ad altri psichiatri dell’istituto in un luogo in cui i pazienti potevano parlare ed esprimersi, svolgere attività creative e anche uscire dalla struttura. Nel ‘68 venne pubblicato il libro L’istituzione negata, in cui lo psichiatra veneto raccontava l’esperienza di Gorizia, che contribuì ad accrescere la sensibilità pubblica sul tema; una conseguenza del dibattito fu la promulgazione della legge 431/1968, che introdusse il ricovero volontario e un primo passo di umanizzazione dei degenti

L’iniziativa di Basaglia e dei suoi colleghi non venne tuttavia accettata di buon grado da tutti, data la forte diffidenza dei cittadini verso i degenti del manicomio e talvolta l’ostilità da parte delle istituzioni locali, e negli anni successivi Basaglia, che nel ‘69 assunse il comando del manicomio di Parma, ebbe risultati simili.

Tuttavia, la situazione cambiò quando, nel ‘71, il presidente della provincia di Trieste affidò a Basaglia la direzione del manicomio della città, promettendogli più libertà d’azione rispetto a quella che ebbe in precedenza. Il 1973 fu in particolare l’anno in cui avvennero i fatti più rilevanti, a partire dalla fondazione del movimento Psichiatria democratica, a cui aderirono in molti tra psichiatri, medici, sindacalisti e politici. 

Basaglia e i suoi colleghi promossero nel manicomio di Trieste diverse attività culturali, come dei corsi di pittura o scultura, e permise ai pazienti di uscire dalle mura dell’istituto per partecipare alla vita della città. Alla fine di quell’anno avvenne una protesta eclatante, in cui psichiatri e pazienti formarono un corteo di circa 600 persone in cui portarono Marco Cavallo, ovvero una rappresentazione del cavallo di Troia realizzata dai pazienti, che divenne il simbolo del movimento antipsichiatrico. 

La rivoluzione antipsichiatrica di Basaglia culminò nel ‘77, quando lo psichiatra ottenne la chiusura definitiva del manicomio di Trieste.

Gli eventi che si avverarono a Trieste, uniti all’influenza che Basaglia aveva sia tra i suoi colleghi che all’interno della classe politica, portarono il tema all’attenzione delle istituzioni nazionali, dove per anni tennero banco delle serrate trattative e discussioni fino al dicembre ‘77, anno in cui si iniziò a discutere di una riforma del Sistema Sanitario Nazionale in cui sarebbe rientrata anche l’abrogazione dei manicomi. 

Tuttavia, se su questa misura si era ormai raggiunto un consenso trasversale, si verificò un acceso scontro politico sull’introduzione del TSO, una forma di ricovero coatto che avrebbe dovuto fare da contraltare alla chiusura dei frenocomi e che si decise di mantenere dopo una lunga contrattazione, nonostante la forte contrarietà dello stesso Basaglia. Un altro fattore che rischiò di far tramontare la riforma fu il referendum popolare che il Partito Radicale propose sul tema, che in caso di esito negativo avrebbe cancellato il consenso raggiunto in Parlamento. 

Per scongiurare questo rischio, le forze politiche si trovarono costrette a discutere in tempi strettissimi un nuovo ddl che mantenesse invariata la sostanza ma slegato dalla riforma del SSN, in modo tale da poterlo approvare prima della tornata referendaria. Il ddl, che vedeva come primo firmatario lo psichiatra democristiano Orsini, venne infine approvato il 2 maggio del 1978, con grande soddisfazione da parte di tutte le forze politiche.

A 45 anni dalla sua approvazione la legge 180 rimane ancora oggi disapplicata in alcune regioni, e i recenti fatti di cronaca (su tutti l’assassinio di una psichiatra a Pisa) suggeriscono che delle riflessioni e delle modifiche saranno prima o poi necessarie. 

Tuttavia, la legge ispirata a Basaglia rimane ancora oggi una legge di grande civiltà e umanità, che ha cambiato il modo di trattare la malattia mentale e che, come amava dire lo psichiatra, «rese possibile l’impossibile». 

Michele Baboni
Studente di scienze politiche, sono appassionato di filosofia, politica e calcio. I temi che ho più a cuore sono i diritti civili e il cambiamento climatico, anche se l'attualità è sempre un punto di partenza stimolante per nuove riflessioni. La scrittura è il mezzo per allargare i miei orizzonti, la curiosità il vento che mi spinge alla ricerca incessante di nuove risposte.

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