Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.
Del Cavaliere, il cui recente trapasso ha suscitato reazioni discordanti, s’è detto di tutto: che sia stato un presidente modello o un agiografico esempio di cultura imprenditoriale, che ha rovinato il Paese e così via. Per quanto però, con la relativa eccezione del craxismo, sia stato l’unica personalità politica nella nostra storia repubblicana a dare il nome a un ventennio, va sempre ricordato che nessun eroe eponimo può fare la storia da solo, e senza le masse al seguito non ci si muove mai granché. Contro ogni pretesa megalomane, anche Silvio ha avuto il suo brodo di coltura.
Una «società insofferente», come l’ha definita Piero Ignazi in un breve e caustico saggio sul berlusconismo.
Gli anni Ottanta sono stati gli anni del riflusso, dei diritti civili e della Milano da Bere. Un decennio in cui la radicalizzazione politica si allentava, lasciando crescere invece un rifiuto sempre più collettivo verso i partiti e le loro strutture ingombranti. L’individualismo crescente, Zeitgeist di allora (e forse pure di adesso), ebbe interpreti pubblici nelle sue molteplici declinazioni. Da un lato un individualismo materialista e familista, che avrebbe trovato nell’imprenditore milanese il suo referente. Dall’altro un individualismo aggressivo, antipolitico, figlio di una nordica paura per la crescente immigrazione e dell’astio verso il parassitismo statale.
In principio nacquero le prime leghe autonomiste in Veneto, Piemonte e Lombardia, con l’intento di trasformare la regione, riferimento geografico e amministrativo, nella base per un’identità politica. Si ripercorrevano le fratture tra centro e periferia, nella richiesta di maggiori spazi di autogoverno. La formazione principale era la Liga Veneta, seguita dalla Lega Lombarda poco più a ovest.
In vista delle elezioni europee del 1989, le leghe si presentarono con la comune sigla di Alleanza Nord, conquistando il 3,7% dell’elettorato settentrionale e sfondando in Lombardia con l’8,1%. I buoni risultati elettorali consentirono al leader lombardo Umberto Bossi di promuovere, nel dicembre dello stesso anno, l’unione delle leghe regionali dell’Italia settentrionale nella Lega Nord, la cui nascita fu resa pubblica in un congresso al Jolly Hotel di Segrate.
La protesta che stava dietro al successo leghista andava però incanalata in un progetto che superasse le incertezze dei partiti tradizionali.
La Lega nasceva infatti più come un fenomeno di rottura che di costruzione: un difetto che ha causato non pochi problemi ai suoi portavoce, i quali, escluse le invettive contro gli “africani” delle varie latitudini al di sotto del Po, hanno sempre dimostrato una certa carenza argomentativa. Al momento, comunque, la denuncia del sistema corrotto e inefficiente dello Stato parve un buon collante: si era, d’altronde, alla vigilia di Mani Pulite e del collasso del sistema.
Bossi incarnò quindi il leggendario Alberto da Giussano: come il condottiero medievale aveva guidato la Lega Lombarda contro l’imperatore Federico Barbarossa, Umberto da Cassano Magnago chiamò a sé i comuni del Nord gridando alla liberazione dall’asfissiante centralismo romano.
Quanto alla verità storica, poco importava che tale Alberto da Giussano non fosse mai esistito: il parallelismo calzava bene, e da allora il Carroccio, carro con le insegne dei comuni medievali e simbolo delle loro autonomie, sarebbe diventato il secondo nome della Lega: quello che sentiamo dire ai telegiornali per non fare troppe ripetizioni.
La patria del Nord fu, al di là delle imprecisioni accademiche, una geniale invenzione per dare una terra promessa a quel “patriottismo difensivo”, declinato su scala regionale, che era il perno del nuovo soggetto politico.
E difatti, per quanto di veri e propri progetti di secessione non si parli più, il suo spettro compare ancora nel dibattito pubblico, con tutta la sua potenza evocativa, in barba a chi dice che la Padania non esiste.
L’identità regionalista, appartenenza a una patria creata ad hoc per dare una cornice alle intolleranze intestine, diventava così un riferimento per tutte le tensioni che percorrevano la società di allora: tra Paese legale e reale, tra autoctoni e immigrati (con lo spostamento progressivo verso sud del baricentro razzista), tra gente comune e criminali, “devianti” di ogni tipo o presunti tali. Un misto di regionalismo, populismo e razzismo che sarebbe stato alla base della permanenza leghista nell’arena politica anche per tutta la Seconda Repubblica.
BIBLIOGRAFIA:
R. Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Bari 2010
P. Ignazi, Vent’anni dopo. La parabola del berlusconismo, Bologna 2014