In Italia, 3 milioni di occupati vivono in condizioni di povertà lavorativa. In Italia, 3 milioni di persone sono coinvolte nel lavoro nero, definito anche “sommerso” o “irregolare”.
Sempre in Italia, Repubblica democratica fondata sul lavoro, il lavoratore, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Così, apertamente e senza veli, si mostra il contrasto tra quanto sancito sulla carta e quanto accade nella realtà dei fatti. Un contrasto che negli ultimi anni non ha mostrato alcun segno di allentamento e che si è anzi rafforzato, andando a radicarsi ulteriormente nel tessuto sociale italiano. Questo contrasto, tuttavia, ha risvegliato di recente gli animi della politica, rimettendo in piazza un dibattito che ciclicamente si ripresenta nel nostro Paese, quello sul salario minimo fissato per legge.
Il 4 luglio alla Camera è stata depositata una proposta di legge per l’istituzione di una retribuzione minima oraria di 9 euro lordi per i lavoratori dipendenti, proposta sottoscritta da tutti i partiti di opposizione, ovvero Pd, Movimento 5 Stelle, Avs Azione e + Europa, con la sola eccezione di Italia Viva.
La principale finalità di questo strumento sarebbe quella di contrastare la povertà attraverso la garanzia di una retribuzione che sia proporzionata al lavoro svolto; lo Stato, in questa prospettiva, andrebbe a intervenire nella contrattazione collettiva, limitando la libera determinazione dei salari operata dal mercato al fine di incrementare le retribuzioni di coloro che sono in fondo alla scala salariale. Attualmente, infatti, su 63 dei contratti di lavoro più rappresentativi, 22, vale a dire oltre un terzo, garantiscono una retribuzione oraria sotto i 9 euro lordi.
Un lavoratore su tre, in Italia, ha un guadagno al di sotto di tale soglia. Può questa chiamarsi «esistenza libera e dignitosa», come vorrebbe la Costituzione? Intuibile la risposta, o quantomeno auspicabile.
Sul punto, le voci della maggioranza non hanno tardato a farsi sentire, esprimendo la loro assoluta contrarietà all’istituzione di un salario minimo fissato legge. Prima di tutto, come in ogni dibattito politico che si rispetti, non sono mancate frasi pronunciate all’insegna di un grossolano populismo, come quella pronunciata del ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ci ha gentilmente ricordato che il salario minimo «non serve» e che «non siamo in Unione Sovietica, in cui tutti avevano lo stesso stipendio», forse confondendo la soglia minima uguale per tutti con un salario uguale per tutti, e forse dimenticando che la maggior parte dei Paesi europei, liberali e democratici, hanno già una legge in materia.
Anche il ministro per le Politiche del mare Nello Musumeci ha voluto dire la sua, definendo il salario minimo come una misura di «assistenzialismo», forse facendo un po’ di confusione con altre misure sociali. Al di là di queste superficiali esternazioni, tuttavia, ci sono alcune obiezioni, avanzate dalla maggioranza, assolutamente degne di nota:
la paura principale è che il salario minimo per legge diventi un «parametro sostitutivo» e non «aggiuntivo» dei CCNL – contratti collettivi di lavoro nazionale – e che, di conseguenza, possa portare a una spinta verso il basso della dinamica retributiva, con l’uscita di tante aziende dall’applicazione dei contratti.
Cosa che, tuttavia, non è successa nei Paesi occidentali che hanno introdotto per legge una paga minima garantita, come Francia e Germania. Altra obiezione avanzata è che l’istituzione di un salario minimo andrebbe soltanto ad incentivare il lavoro nero e la disoccupazione.
Tuttavia, come evidenziato da un articolo pubblicato sul sito Percorsi di secondo welfare, a partire dagli anni ‘90, una parte del dibattito accademico sul tema ha evidenziato come i rischi appena citati siano ridotti. In particolare, la stessa letteratura ha affermato che la correlazione tra aumento del salario e incremento del tasso di disoccupazione sia minima, se non del tutto assente.
Quanto alle proposte alternative osteggiate dalla maggioranza, con il pieno appoggio dei sindacati dei lavoratori, che certo vedrebbero nell’introduzione del salario minimo un ostacolo al loro potere contrattuale, emerge in particolar modo quella volta a rafforzare la contrattazione collettiva, stabilendo che nessun contratto possa fissare livelli retributivi inferiori a quelli degli accordi firmati dalle associazioni più rappresentative. Sì al salario minimo insomma, purché non fissato dalla legge ma dalle parti sociali.
Per fare questo, tuttavia, sarebbe necessario stabilire in modo condiviso quali sono le organizzazioni maggiormente rappresentative, cosa che, allo stato attuale della legislazione in materia di rappresentatività, sarebbe molto difficile da raggiungere. Per di più, anche le parti datoriali sicuramente più rappresentative sono in concorrenza tra loro in alcuni settori e nessuna di queste potrebbe rivendicare la rappresentanza esclusiva in uno specifico settore.
Insomma, ci troviamo immersi in un mare di tesi e contro-tesi, proposte e contro-proposte di fronte alle quali è difficile orientarsi e vedere con lucidità chi, fra economisti competenti e quelli improvvisati, offra una descrizione critica e fondata degli scenari che potrebbero derivare dall’adozione di una di queste misure.
Certo è che entrambe le soluzioni prima citate presentano profili convincenti e altri più critici e incerti, come del resto è inevitabile che sia in una materia tanto delicata come quella del lavoro. Tuttavia, in questo marasma di opinioni, un dato inequivocabile c’è: la maggior parte degli italiani chiede che sia fissato un valore minimo del salario al costo orario, che sia per legge o per contrattazione collettiva. E che questa esigenza condivisa non sia più eludibile dallo Stato ce lo dice l’Europa, la quale nel giugno 2022 ha approvato una direttiva che obbliga gli Stati membri a garantire entro il 2024 un livello di vita più dignitoso ai lavoratori.
Il tema dunque non è tanto salario minimo sì o salario minimo no, ma semmai come vogliamo attuare questo primo passo in difesa di chi lavora. I partiti di opposizione, in questa direzione, si sono mossi senza indugi, e, finalmente, hanno trovato un punto di raccordo di una saldezza inaspettata. L’auspicio, a questo punto, è che con la maggioranza possa effettivamente instaurarsi un dialogo costruttivo che, senza posizioni di principio o di bandiera, vada in direzione del contrasto della gravissima crisi che il nostro Paese sta attraversando, quella della povertà lavorativa.
Quella stessa crisi in virtù della quale l’Italia è considerata la “maglia nera” per i salari tra le grandi economie avanzate del pianeta, secondo quanto rilevato dall’Ocse nell’ultimo rapporto sulle Prospettive dell’Occupazione 2023.
Alla fine del 2022 – avverte l’Ocse – i salari reali erano calati del 7% rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre del 2023, con una diminuzione su base annua del 7,5%. Insomma, basta leggere i dati per intuire quale sia l’entità e la gravità del problema.
Nel frattempo, in attesa che il lavoro congiunto di maggioranza e opposizione possa portare, auspicabilmente, all’adozione di una valida misura, è possibile soffermarsi su quello che sembra essere un dato positivo relativo alla discussione che si è aperta in merito al salario minimo, vale a dire l’improvviso quanto energico slancio della sinistra italiana e, in particolare, del Partito Democratico.
A quasi un anno dalla sconfitta subita alle ultime elezioni, la sinistra sembra riemergere soltanto ora, forse rendendosi conto di quanto sia necessaria in questo momento un’analisi vera delle ragioni che hanno portato molti elettori di sinistra a scegliere la destra sovranista.
Un partito che per anni si è presentato sotto il profilo del “partito delle responsabilità”, subito pronto a farsi carico dei momenti di crisi del paese, un partito che si è macchiato così tanto di governismo, di moderatismo e di trasformismo, che ha finito per farne la sua veste, forse in questo momento si è reso conto di quanto sia urgente e inderogabile un cambiamento che vada ad allentare l’incrollabile moderatismo ai limiti dell’imbalsamazione per lasciare più spazio al progressismo, anima ineludibile della sinistra.
Forse, per un partito che è andato incontro a un innegabile appiattimento sui doveri, in questo momento il fatto trovarsi all’opposizione è soltanto un’opportunità:
per passare da essere un partito di governo a tutti i costi a un partito di critica e di cambiamento, un partito che possa farsi guida di una vera missione politica, senza più essere soltanto portatore di un’ideologia che si esaurisce nella scelta dilemmatica tra rosso e nero, tra giusto e sbagliato, e che punti tutto sulla paura del peggio quale collante della sinistra italiana.
In questa prospettiva, quale missione migliore potrebbe abbracciare la sinistra se non quella del lavoro, così da ripartire e ridare un volto a un partito che un volto non lo ha più, che lo ha continuamente perso, trasformato e che ha accolto a braccia aperte anche derive populiste? È questa l’idea di cui la sinistra dovrebbe farsi portatrice, quella del lavoro quale leva di emancipazione e autonomia della persona, quella di uno Stato che considera prioritari i diritti sociali oltre che quelli civili. In questo senso, la battaglia per il salario minimo è un ottimo punto di partenza.