Il fashion market è un mondo tanto variegato quando imprevedibilmente simile. In due diversi articoli pubblicati su Vulcano si è parlato di due approcci molto diversi allo shopping e al modo di interpretare la moda, trattando da un lato di luxury fashion e dall’altro di second-hand.
Questo ci permette, per esempio, di considerare la dicotomia che separa il fast fashion da settori come il second-hand e l’old money 2.0.
Le differenze sono presto dette. Nel primo caso si tratta della ben nota “moda veloce”, quella in costante cambiamento, sempre alla rincorsa delle ultime tendenze: i cosiddetti fast trends, che sono spesso frutto della cultura pop e dei suoi mezzi, in primis social media e influencer. Fra i trend più recenti possiamo sicuramente citare la Barbiemania, di cui Margot Robbie e Ryan Gosling sono diventati i principali ambasciatori durante il tour di red carpet del film.
Il fast fashion è la declinazione di moda che hanno adottato giganti dell’e-commerce come Shein, ma anche catene come Primark, H&M, Tally Weijl, ecc. Il second-hand e l’old money 2.0, pur rappresentando due stili differenti, sono accomunati da un’estetica consolidata, senza tempo, che trova un punto di incontro nell’apprezzamento del vintage.
Indubbiamente ciò che spopola tra gli acquirenti, soprattutto i più giovani, è ancora il fast fashion, per via della sua accessibilità economica.
Di fatto questo lo rende il mercato principale, mentre l’usato e il lusso costituiscono i mercati alternativi. Tuttavia, negli ultimi tempi si è registrato un aumento effettivo della richiesta di beni second-hand o griffati. Nuovi negozi e pop-up di abiti di seconda mano, il successo di app come Vinted, le collaborazioni di tanti brand di lusso con personaggi come Dua Lipa, Zendaya e Shawn Mendes per avvicinare i clienti più giovani: sono tutte testimonianze di una fetta del fashion market che sta crescendo sempre di più.
Inoltre, è importante sottolineare che i mercati alternativi rispondono a delle esigenze dei consumatori che non sono soddisfatte dal fast fashion, ovvero sostenibilità e qualità.
Una delle red flag principali di marchi come il sopracitato Shein è proprio la carenza in termini di rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. A tal proposito non sono mancate le polemiche a seguito della prima sfilata organizzata dal colosso cinese, che si è svolta a inizio giugno a Parigi. Il malcontento è poi sfociato in una campagna anti-Shein, avviata dal leader del movimento Place publique Raphaël Glucksmann, a cui si è aggiunta una petizione “stop Shein” che in meno di due giorni ha superato le 10mila firme.
Ad oggi, sulla scia di proteste come questa e di critiche al loro modello di business, le aziende di fast fashion stanno cercando di rimediare, in modo più o meno autentico, a quelle mancanze che rischiano di allontanare i consumatori dai loro stores. In primis, l’aspetto della sostenibilità.
Non è un mistero che la filiera di questo tipo di brand sia fondata sullo sfruttamento di intere regioni del mondo – da un punto di vista umano e naturale – e per gli acquirenti (soprattutto i più giovani) sta diventando sempre più difficile nascondere la testa sotto la sabbia e accettare di star contribuendo ad effetti di questo genere e portata.
Così, per continuare ad aumentare il proprio fatturato, i marchi di moda veloce hanno implementato una serie di misure e di programmi (accuratamente pubblicizzati) volti a ridurre il proprio impatto. Almeno all’apparenza.
Infatti, molti osservatori del fenomeno non hanno potuto fare a meno di notare come diverse di queste iniziative siano sostanzialmente ininfluenti sul processo produttivo degli indumenti, che continuano ad essere creati nel modo sopracitato.
Per descrivere questo fenomeno parliamo di greenwashing, ossia del tentativo dei brand di apparire più “green” di quello che in realtà sono, spesso utilizzando pubblicità ingannevole.
Nel 2021 la non-profit “Changing markets foundation” dichiarò che circa il 59% delle campagne green delle aziende europee e britanniche sono ingannevoli e non rispecchiano il reale impegno ambientale delle stesse.
Un esempio? H&M ha creato “Conscious”, una linea i cui indumenti sono fatti almeno al 50% da materiali sostenibili, oltre ad aver annunciato l’ambizioso obiettivo di voler utilizzare esclusivamente materiali riciclati entro il 2030. Tuttavia, si tratta di progetti vaghi, non accompagnati da trasparenza sui risultati ottenuti e sulle azioni che in concreto la società sta portando avanti per raggiungerli. Inoltre, H&M non fa alcun accenno alle disastrose emissioni che produce, né alla quantità esorbitante di indumenti prodotti: parliamo di tre miliardi di capi all’anno.
E che dire della qualità? Si tratta di un altro “punto a favore” dei mercati alternativi, in quanto il lusso è fondato sulla caratura superiore dei suoi prodotti, mentre rivolgersi alla seconda mano significa tendenzialmente avere accesso ad indumenti di marchi di qualità a basso prezzo. Gli abiti sono più durevoli, meno dozzinali.
È una ricerca condotta dalla piattaforma “Mention Me” a confermare la crescente tendenza dei consumatori ad optare per l’acquisto di un numero inferiore di capi di maggiore qualità, confermata dalla crescita del settore luxury a scapito del fast fashion.
Vista la crescente influenza dei fashion markets alternativi fra i giovani, ci si potrebbe chiedere se la fast fashion sia in declino. La risposta, molto evidente, è no. L’aumento di fatturato del settore è sostenuto e pare che continuerà ad esserlo anche nei prossimi anni. Ciò non toglie, però, che le esigenze dei consumatori si stiano imponendo, e che sempre di più le aziende debbano farci i conti per restare competitive.
In definitiva, è molto difficile predire se il second-hand o la moda di lusso prenderanno il sopravvento nel futuro. Ciò che conta, però, è che la competizione tra questi diversi mondi stia portando a (seppur lenti e ancora insufficienti) cambiamenti nel mondo della moda veloce. E chissà, forse questa gara porterà a un ibrido ben riuscito.
D’altronde le collaborazioni tra fast-fashion e brand di lusso non sono una novità già da tempo, basti pensare alla recente collezione firmata da H&M e Mugler. Tuttavia, come già accennato più volte, ciò che potrebbe fare davvero la differenza è un giro di boa nella produzione e nelle priorità settate dalle aziende.