Passa la folla, passa l’eccitazione del momento, il fruscio degli applausi più commossi e stupefatti. Passa anche quello strano e assurdo dualismo con la sua controparte rosa, che ci ha accompagnato per tutta l’estate. Passa e si esaurisce, infine, persino la riflessione dei più acuti cinefili, crucciati nel trovare il senso generale che possa descrivere le tre ore che hanno appena vissuto, interdetti davanti al significato più profondo, a quelle sequenze che rimandano a un non detto, a un oggetto nascosto che il cineasta ha riservato al pubblico erudito.
Dopo neanche un mese dall’uscita nelle sale italiane di Oppenheimer, tutti questi elementi, seppur nella loro importanza momentanea, in quanto coinvolti nell’evento cinematografico che è stato il nuovo film di Christopher Nolan, lasciano spazio ad un unico, cruciale attore protagonista: l’emozione.
Fin dai primissimi attimi della pellicola, in cui un giovane Robert Oppenheimer sperimenta lo studio dell’infinito, risulta chiaro come ciò che verrà raccontato trascenderà quello a cui il regista ci ha abituati finora.
Il personaggio interpretato magistralmente da Cillian Murphy compie attraverso una singola scena un percorso nella sua condizione di portatore di un nuovo mondo, di cui puoi si rivelerà creatore e distruttore. Fra una lezione universitaria e l’altra, dove cova un’ira sempre più forte, che lo porterà a voler quasi avvelenare il suo professore, scorge così uno spazio nuovo ed incontaminato.
Quello che però viene catturato dalla cinepresa altro non è che il timore spontaneo di un uomo che nel cuore della notte sogna realtà sconfinate, a lui tangibili, che lo perturbano, costringendolo a guardare laddove tutto il resto dell’umanità non può.
La strada che il fisico statunitense dovrà attuare per raggiungere consapevolezza di sé, dell’universo attorno a lui e del suo potere politico e mediatico, coincide poi con un altro cammino, altrettanto arduo, quello di Nolan verso un nuovo cinema.
Il regista per eccellenza volto alla sovrabbondanza, alla perversione per le teorie scientifiche più astruse, che ha sempre goduto nel volteggiare fra vocaboli eccessivamente tecnici e narrazioni inutilmente criptiche, questa volta ci sorprende, superando quel limite che sembrava invalicabile, anche per un genio così cristallino come il suo.
Se nei suoi precedenti lavori infatti si avvaleva di un fenomeno sociale, scientifico o storico per degenerarlo, allungandone inutilmente le dinamiche, con la sua ultima fatica si spoglia dei panni di antagonista del pubblico, pronto a confondere scenari già intricati, per farsi docile guida dello stesso.
Nolan diviene una figura rassicurante, invisibile ma presente.
Anziché aggiungere compulsivamente dettagli, sviscera e soverchia i nodi di una storia totalizzante, che tratta di un singolo per spiegare il fenomeno di un’epoca e di una generazione intera, concedendo agli spettatori un varco per intrufolarsi nelle pulsioni più recondite del padre della Bomba Atomica.
Quello che compie il regista britannico è il passaggio all’età adulta della sua carriera, abbandonando l’egocentrismo che lo ha sempre contraddistinto, che lo rendeva il burattinaio, reale protagonista di tutti i suoi film passati, raggiungendo l’apice con il penultimo Tenet, un vortice nozionistico che lascia trasparire solo un’ossessione incondizionata verso saperi scientifici oscuri e paradossali.
Nolan cala così la smania di sé nei lineamenti caratteriali di Oppenheimer, in una registrazione soggettiva di ogni evento che colpirà lui e che si ripercuoterà sul futuro della sua nazione.
Il culmine del nuovo modello di cinema nolaniano si osserva proprio con la scena cruciale, attesa da un’audience che in sala è rimasta sbigottita, nell’assistere ad un film che di esplosivo conserva pochissimo, ma anzi intriso della rabbia, della tristezza e della gioia di uno solo.
L’impatto visivo e sonoro dello schianto dell’arma nucleare resta infatti fedele alla linea tracciata per tutta la durata dell’opera, racchiudendo unicamente la reazione di chi di quell’arma ne è stato il fautore.
Tutto ciò che si avverte, dalla luce che abbaglia lo scroscio del battere di mani all’unisono, da parte dei fisici di Los Alamos, fino al rumore assordante che penetra i timpani degli spettatori increduli, avviene soltanto nella mente di Oppenheimer.
Con questa scelta Nolan ricalca che cosa per lui sia stato il film, fulcro del dibattito cinematografico più acceso degli ultimi anni: l’analisi di quello che non è mai riuscito davvero a raccontare, storie di uomini che trovano la gloria, falliscono e piangono, che si plasmano sui disastri e sulle fortune che li circondano, esseri perfettibili che non agiscono, ma riflettono.
Per la prima volta nella sua filmografia, l’impressione che sorge una volta usciti dalla sala è quella di un racconto che si è focalizzato su un soggetto tridimensionale, senza che esso trovi la sua unica ragione d’essere nella propria scoperta.
Di questo periodo di fermento e di acclamazione, ciò che Oppenheimer può consegnare realmente ai posteri si ritrova perciò proprio nella redenzione di un regista, che ha finalmente saputo emozionarsi, ed emozionarci.
Articolo di Marco La Rosa