Del: 21 Settembre 2023 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0
Radici. Vita e morte del Compromesso storico

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.

In questo articolo ricordiamo origini ed evoluzione del Compromesso storico, a cinquant’anni dalla sua prima proposizione ufficiale nell’ottobre 1973.



Ha scritto Lenin: «Bisogna comprendere – e la classe rivoluzionaria impara a comprendere dalla propria amara esperienza – che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata» […] La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.

Così scriveva Berlinguer in un articolo pubblicato il 12 ottobre 1973 su «Rinascita», settimanale politico-culturale del PCI. 

La data non era casuale: appena un mese prima, l’11 settembre 1973, si era compiuto in Cile il sanguinoso golpe militare guidato dal generale Pinochet, che aveva condotto all’uccisione dell’allora Presidente socialista Salvador Allende e alla fine del suo progetto di «via democratica al socialismo». Proprio questa era «l’amara esperienza» cui Berlinguer faceva riferimento e il titolo scelto per l’articolo era Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile.

Ma perché i fatti del Cile avrebbero dovuto incidere sulle vicende politiche italiane?

Si era, negli anni Settanta, nel pieno della Guerra Fredda: la polarizzazione politica, che divideva il mondo nei due blocchi contrapposti occidentale e orientale, soggetti alla rispettiva egemonia statunitense e sovietica, non lasciava margine per una gestione autonoma degli affari interni. Erano finiti i tempi dei sistemi politici chiusi, «nazionali», e il caso cileno era esemplificativo: un esponente socialista, Allende, si era affermato alla presidenza con l’appoggio di una coalizione interamente di sinistra, denominata Unidad Popular

Grandi erano state le speranze del popolo cileno e del socialismo internazionale, favorevoli ai programmi di riforma agraria, nazionalizzazione, interruzione del pagamento dei debiti con l’estero; ma non si erano fatti i conti con il malcontento della classe proprietaria e imprenditoriale cilena né con gli effetti che avrebbero avuto tali politiche economiche di scarsa lungimiranza: crisi e tensioni investirono l’intera società cilena.

D’altro canto non si erano fatti i conti nemmeno con gli USA, che non avrebbero potuto accettare l’affermazione di un presidente «rosso» al potere in uno Stato occidentale e americano: i servizi segreti statunitensi, informati dei progetti golpisti, non si opposero – forse offrirono persino il proprio sostegno – e per tutti gli anni ‘70 il regime di Pinochet fu appoggiato dalla superpotenza “democratica”.

Era insomma stato trascurato, per riprendere Berlinguer, il «problema delle alleanze»: una questione di strategia politica. 

La tragica fine della presidenza Allende e l’affermarsi della dittatura militare di Augusto Pinochet – così come il golpe dei colonnelli verificatosi in Grecia nel 1967 –  rappresentavano un importante insegnamento per tutte le forze politiche di ispirazione marxista-leninista: da sole non avrebbero potuto mantenersi stabilmente al governo. 

A riprova di ciò il fatto che anche in Italia si fosse profilato, nel vicino 1970, un presunto colpo di Stato di matrice neofascista, l’ormai celebre golpe Borghese, su cui ad oggi non è ancora stata fatta piena chiarezza.

Del resto nella penisola lo scenario era già fertile per un riavvicinamento del Partito Comunista all’arco dei partiti governativi. Gli anni erano difficili, i governi deboli: l’Italia era in preda alla crisi economica alimentata dalla fine del gold exchange standard – voluta dal Presidente statunitense Nixon nel 1971 – e dalla crisi petrolifera dovuta all’embargo deciso dai Paesi produttori di petrolio (riuniti nell’OPEC) a danno delle nazioni che avevano sostenuto Israele nella guerra dello Yom Kippur in quello stesso 1973.

La stessa società italiana era in fermento:

l’anno 1969 fu segnato dagli intensi scioperi operai e studenteschi – il cosiddetto «autunno caldo» – e dall’inizio del terrorismo estremista con la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre.

Proprio negli anni Sessanta la Democrazia Cristiana aveva inoltre aperto ad una nuova formula di governo, quella del centrosinistra: per la prima volta nel 1963, con il governo Moro I, si formò un esecutivo che incluse il Partito Socialista e il Partito di Unione proletaria. 

Da una parte il presidente democristiano Aldo Moro, dall’altra Enrico Berlinguer: grazie alla loro fantasia politica fu per la prima volta possibile ipotizzare la rottura della conventio ad excludendum che aveva fino a quel momento costretto il PCI ai margini.

Ormai più di cinquant’anni dopo la svolta di Salerno promossa da Palmiro Togliatti nel 1944, Berlinguer proponeva dunque come obiettivo il «consenso della grande maggioranza»:

Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. 

Per ottenerlo era necessario che i partiti di centrosinistra accettassero di porre fine all’emarginazione del PCI, il quale avrebbe tuttavia a propria volta dovuto smussare le proprie posizioni e rassicurare l’elettorato rispetto alla propria intenzione di tutelare la democrazia e tenersi lontano dall’influenza sovietica. 

La via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. 

Fu così che Berlinguer propose la formula dell’eurocomunismo: il Partito comunista italiano accettava così ufficialmente il regime democratico e pluralista e soprattutto il posizionamento dell’Italia entro l’area di influenza statunitense, nonché la sua appartenenza alla Comunità europea e alla NATO.

Il progetto del compromesso storico, nei termini di un avvicinamento alla DC, sembrò potersi concretizzare soltanto con le elezioni del 1976: 

il massimo storico del Partito Comunista Italiano (oltre un terzo dei voti) mise in difficoltà il centrosinistra organico dei democristiani e dei loro alleati socialisti, socialdemocratici e repubblicani.

I risultati raggiunti dal partito di Berlinguer costrinsero la DC a un atteggiamento collaborativo, che portò nell’immediato all’elezione dell’ex-partigiano Pietro Ingrao a Presidente della Camera (primo comunista ad occupare quel ruolo, se si esclude Terracini nella Costituente) e più tardi alla prima giunta non democristiana a Roma, quella presieduta dall’indipendente di sinistra Giulio Carlo Argan.

La congiuntura economico-sociale negativa favorì la formazione del primo cosiddetto governo di solidarietà nazionale, costituito da un Consiglio dei Ministri monocolore democristiano ma che godeva in Parlamento dell’astensione tanto del centrosinistra quanto del PCI: si trattava dell’Andreotti III, in cui figurò per la prima volta una donna (Anselmi, ministra del lavoro).

Vignetta pubblicata su Repubblica, 1976

Fu a molti subito chiaro che sarebbe stato un governo della non sfiducia (con le parole del deputato Ossicini) più che la realizzazione dell’alleanza PCI-DC: 

come disse il leader socialista Pietro Nenni, un governo emergenziale a larga maggioranza e non il famoso compromesso storico. Del resto erano vivi i timori verso l’ingresso delle «forze malefiche» comuniste nel gabinetto di Andreotti (per citare un deputato liberale), condivisi dal cancelliere della Germania Ovest Schmidt.

Nel suo anno e mezzo di vita, l’esecutivo dovette affrontare del resto eventi traumatici e divisivi, come gli attentati terroristici rossi (i casi Coco, Croce, Casalegno e Montanelli) e neri (i casi Occorsio e Rossi), ma anche casi di corruzione caratteristici di quella che Berlinguer avrebbe poi iniziato a chiamare questione morale (dal coinvolgimento dell’ex-premier Rumor nello scandalo Lockheed ai finanziamenti irregolari della Cassa di Risparmio nel 1977).

Il governo di Andreotti decise di adottare misure di austerità per far fronte alla crisi (ma anche al terremoto del Friuli), come i rincari dell’energia e del tabacco o l’aumento della tassazione degli utili (al contempo richiedendo un prestito al FMI).

Come avrebbe potuto un partito come il PCI giustificare una tale riduzione della spesa pubblica? 

Berlinguer scrisse in un pamphlet del 1977 che l’austerità da lui supportata andava al di là della misura estemporanea pianificata dai gruppi dominanti per restaurare lo status quo precedente la crisi petrolifera: era piuttosto uno strumento per minare alla base una più ampia crisi anche morale e per realizzare una maggiore giustizia sociale.

In sostanza, contrapponeva «rigore, efficienza, serietà» comuniste a «sperpero […] individualismo […] consumismo» edonisti e neoliberali.

Come avrebbe poi sostenuto l’economista Michele Salvati sui Quaderni Piacentini, queste politiche ebbero degli effetti positivi; tuttavia Paul Ginsborg ha di recente sottolineato l’inazione comunista sulla riforma delle prigioni o il controllo delle forze di polizia, l’inclusione del PCI nelle pratiche di lottizzazione della Rai e, in ultima analisi, l’accettazione di un sistema neocorporativo che non risolse la disoccupazione.

Tale giudizio negativo venne espresso già nel 1977 dallo storico Norberto Bobbio sul Corriere della sera («l’austerità […] è un invito a non fare») oltre che dallo stesso comitato centrale del PCI, ma anche dalla sinistra extraparlamentare che vedeva il governo Andreotti III come la conferma che il compromesso storico avrebbe rappresentato l’imbalsamazione della questione proletaria, tramite un’inclusione paternalista dall’alto da parte della DC (così scriveva già nel 1975 Lotta Continua).

Spinto da tali pressioni interne alla sinistra, oltre che da ulteriori divisioni nella maggioranza dovute alla riproposizione dei Patti Lateranensi e alle dimissioni del ministro della difesa Lattanzio, Berlinguer propose su L’Unità di cambiare la formula di governo, facendo entrare ministri comunisti nel gabinetto di Andreotti.

A fine 1977, dopo che il PSI di Craxi aveva proposto una chiarificazione politica e dopo il passaggio dei repubblicani all’opposizione, Berlinguer aprì alla crisi di governo, che si concretizzò con le dimissioni di Andreotti a gennaio 1978.

Si iniziò subito a pensare alla composizione di un nuovo esecutivo, con i liberali contrari all’inclusione del PCI e quest’ultimo favorevole a un eventuale governo composto da tutti tranne la DC, ma alla fine si concordò un Consiglio dei Ministri nuovamente monocolore democristiano, sostenuto però stavolta dal voto favorevole del centrosinistra e del PCI (il cosiddetto appoggio esterno, più di un’astensione): l’Andreotti IV.

La formazione di quest’ultimo non fu sicura fino al 16 marzo 1978, mattina stessa in cui era previsto il voto di fiducia: nel pieno della seduta parlamentare venne reso noto il rapimento di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse, che ormai accusavano il PCI di essere divenuto antioperaio, evento che strinse e spinse i partiti ad accordare i propri voti al nuovo governo di solidarietà nazionale.

L’esecutivo però dovette affrontare quelle che Andreotti, al ritrovamento del cadavere di Moro due mesi dopo, definì «pagine amare» della storia italiana: non solo le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone a seguito di scandali fiscali (dopo le quali PCI e PSI riuscirono a imporre l’elezione di Pertini) o la morte di ben due Papi, ma soprattutto la morte del presidente democristiano rapito, uno dei due poli del compromesso storico ormai abbandonato dalla DC, secondo Berlinguer.

Quest’ultimo chiese nel 1979 per l’ultima volta ad Andreotti l’inclusione dei comunisti nel gabinetto: il premier, davanti all’ultimatum, decise di rassegnare le proprie dimissioni.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.
Giulia Riva
Laureata in Storia, sto proseguendo i miei studi in Scienze Politiche, perché amo trovare nel passato le radici di oggi. Mi appassionano la politica e l’attualità, la buona letteratura e ogni storia che valga la pena di essere raccontata. Scrivere per professione è il mio sogno nel cassetto.

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