7 luglio, Palermo. Una ragazza di diciannove anni viene picchiata e violentata da un gruppo di sette ragazzi tra i diciassette e i ventidue anni. Non servono altre parole, o dettagli, per rendere conto dell’orrore di questa violenza. Dettagli però ne abbiamo avuti, molti, forse troppi, gentilmente offerti dalle notizie di cronaca e dati subito in pasto a un pubblico che ha solo voglia, se non bisogno, di indignarsi, di sfogare la propria rabbia aggrappandosi all’ultimo caso di cronaca.
All’indomani dello stupro di Palermo, infatti, le persone si sono arrabbiate,
hanno urlato, hanno puntato dita accusatorie in ogni dove, si sono accorte che questa violenza ha inferto l’ennesima ferita alla nostra società e alla sua struttura. Molti, allora, hanno chiesto che questa ferita venisse ricucita, rattoppata, senza però interrogarsi su come curarla effettivamente, in profondità.
Pertanto, sorgono spontaneamente due quesiti: qual è stata la risposta della politica a queste grida di rabbia e pretese di intervento? Ma, soprattutto, dove ricercare le cause di queste ferite che noi tutti, quale collettività, ci troviamo continuamente a subire e soffrire?
La risposta politica più decisa e impetuosa è sicuramente quella arrivata dalla Lega, che ha subito avanzato un disegno di legge sulla castrazione chimica, poi depositato al Senato.
«Per stupratori e pedofili, italiani o stranieri che siano, carcere e castrazione chimica. Punto». Queste le parole del vicepremier Matteo Salvini, il quale, cavalcando a gonfie vele l’onda emotiva del momento, ha rilanciato una proposta di cui si discute ormai da tempo, sia pur periodicamente e, non a caso, sempre all’indomani di tragici fatti di cronaca che sconvolgono l’opinione pubblica.
«Uno stupratore o un pedofilo, italiano o straniero che sia, la deve pagare fino in fondo. E siccome sono dei malati, i malati vanno curati e messi poi in condizione di non ripetere la loro follia». Certo è allettante, e in qualche modo comoda, l’idea di poter risolvere il problema infliggendo pene corporali che profumano di vendetta.
Se ci si sofferma a ragionare sulla natura della proposta, tuttavia, emergono inevitabilmente almeno tre profili critici: prima di tutto, il reo non è un malato; lo stupratore ha scelto consapevolmente di stuprare.
Parlare invece di malati significa deresponsabilizzare i colpevoli e non riconoscere che la violenza maschile è un fenomeno strutturale ben radicato nella cultura della nostra società.
Secondo punto, la castrazione chimica come deterrente è totalmente inefficace. Lo stupro, infatti, non ha nulla di erotico, non può essere ridotto all’incapacità di trattenere pulsioni; lo stupro nasce da meccanismi psicologici, dalla volontà di degradare l’oggetto del proprio desiderio.
Come spiegato da Marco Inghilleri, sessuologo e psicologo, vicepresidente della Società Italiana di Sessuologia ed Educazione sessuale: «La sessualità non è mera chimica e gli esseri umani non sono macchine biologiche. Va ricordato che il primo organo sessuale è il cervello e ciascuno ha un proprio cocktail ormonale: la prova è che anche con bassi tassi di testosterone si può raggiungere l’erezione e provare desiderio». Insomma, non ha senso parlare di pulsioni e di libido quando il problema è di natura psicologica e culturale.
Terzo punto, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, come sancito all’art. 27 della nostra Costituzione. La castrazione chimica, invece, andrebbe a estirpare dal nostro ordinamento questo principio fondamentale e, con esso, una delle conquiste più importanti della società moderna: l’abolizione delle pene corporali.
Risulta quindi evidente che la proposta della Lega non è altro che una soluzione semplice per un problema che è tuttavia complesso, l’immancabile risposta populista alla percezione popolare che tutto si possa risolvere con l’introduzione di qualche legge drastica e risanatrice.
Tornando al quesito iniziale, occorre ora interrogarsi sulle cause che si può presumere abbiano concorso a procurare tante ferite, in termini di violenze sessuali, al nostro tessuto sociale, troppo spesso ancora aperte o mal richiuse.
Sono tre le principali problematiche che vivono indisturbate nel nostro ordinamento e che richiederebbero invece attenzione e provvedimenti.
Innanzitutto, all’alba del 2023 l’Italia è una delle pochissime nazioni in Europa, insieme a Cipro, Bulgaria, Polonia, Romania e Lituania, in cui non vige l’obbligatorietà di programmi di educazione sessuale nelle scuole. Una mancanza grave, se si considera che la scuola, quale comunità educante, dovrebbe farsi portatrice e promotrice di valori, dovrebbe garantire una giusta informazione in tutti quegli ambiti che sono parte integrante del comportamento umano, tra cui, ovviamente, quello sessuale e relazionale. Che tipo di società speriamo di crescere, invece, lasciando che i giovani si formino da sé su un tema tanto delicato?
La convinzione più diffusa è che il primato educativo in tema di sessualità spetti alla famiglia. Convinzione assolutamente errata, dato che, come evidenziato da un’indagine condotta dal Ministero della Salute nel 2019, solo un adolescente su quattro chiede informazioni in famiglia. Otto su dieci, invece, si informano su Internet.
E così si arriva alla seconda problematica degna di nota, la pornografia mainstream. In una cultura come la nostra, dove non è prevista alcuna valida forma di educazione sessuale, i bambini e gli adolescenti, per cercare di conoscere il sesso e capire come funziona, si affidano completamente ai contenuti pornografici, offerti senza filtri né limiti da svariati siti online.
Risultato? Un’intera generazione di giovani il cui immaginario sessuale viene plasmato dalla pornografia. Una generazione che concepisce il sesso e parla di sesso attraverso gli schemi visivi e interpretativi acquisiti da Internet. Schemi che, tuttavia, sono completamente fuorvianti e che portano a sviluppare false aspettative, stereotipi e a percepire il sesso come qualcosa di puramente fisico, meccanico e performativo.
In una società in cui già molto spesso è difficile distinguere la realtà dalla finzione, questi contenuti possono avere effetti estremamente dannosi, come portare a credere che gli atteggiamenti violenti spesso riprodotti nei filmati siano la normalità.
Insomma, come sottolineato dall’OMS, l’assenza di un’adeguata educazione sessuale, unita alla diffusa disponibilità di pornografia mainstream, contribuisce a sviluppare comportamenti, sessuali e non, malsani. Non si tratta quindi di abolire o vietare i contenuti pornografici, ma di imporre limiti di accesso per i minori e, soprattutto, di introdurre forme di educazione sessuale alternative, che quantomeno forniscano gli strumenti per imparare a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Terzo punto critico: la legislazione italiana, nella definizione del reato di stupro, non contempla il principio del consenso. All’art. 609-bis del codice penale, si prevede che, perché un determinato comportamento sia considerato stupro, e quindi sia sanzionato in tribunale come un reato, è necessario che concorrano elementi di violenza, minaccia, inganno o abuso di autorità. Nessun riferimento al consenso. E questo nonostante la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, stabilisca che lo stupro è un “rapporto sessuale non consensuale”.
Parlare di consenso, infatti, significa difendere il principio del rispetto dell’altro, significa garantire il pieno accesso alla giustizia alle vittime di violenza sessuale, significa abbattere i pregiudizi a cui invece la legge attuale lascia ampio spazio.
Introdurre il principio del consenso contribuirebbe a sottrarre la donna, la vittima, agli immancabili processi mediatici che è costretta a subire a seguito di una violenza, processi in cui la sua identità viene violata, esibita e troppo spesso condannata con sentenze che ne sottolineano l’abbigliamento, il carattere, le abitudini.
Troppo spesso ci si serve dell’elemento dall’alcol per colpevolizzare la vittima e, indirettamente, per attenuare le colpe del carnefice. Secondo l’Istat (2019) persiste in Italia il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Il 39,9% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Il 15,1% è dell’opinione che una donna che subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile.
Adeguare la legislazione italiana a quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, attraverso l’introduzione del principio del consenso, come anche chiesto dalla campagna IoLoChiedo, lanciata da Amnesty International Italia, significherebbe quindi smantellare, almeno formalmente, questo immenso costrutto di pregiudizi e fare un passo in avanti in termini di prevenzione, protezione e condanna della violenza contro le donne.
Educazione sessuale e principio del consenso. Alla luce dei tragici fatti di Palermo, sono questi, quindi, i punti chiave da cui bisogna ripartire, così da dare una forte spinta a un cambiamento culturale più che mai necessario.