Circa tre anni, poi quarantaquattro giorni, poi solo ventiquattr’ore. È il tempo servito a conquistare il Nagorno-Karabakh rispettivamente negli anni Novanta, nel 2020 e a settembre 2023, quando il territorio (noto in armeno come Artsakh) è capitolato all’attacco azero in bene o male un giorno. Ma come si è arrivati fin qua? Perché si teme una pulizia etnica e, soprattutto, che cos’è il Nagorno-Karabakh?
Si tratta di una regione montuosa sita sulla carta in Azerbaijan ma popolata sin dai tempi sovietici da una maggioranza etnicamente armena, per cui le sue autorità si considerano indipendenti e c’era chi auspicava una sua annessione all’Armenia.
Quest’ultima soluzione lo renderebbe a tutti gli effetti un’exclave armena, cioè territorialmente distaccato dal resto del proprio Paese.
Sia l’Armenia che l’Azerbaijan, data la collocazione caucasica, sono spesso considerati Paesi transcontinentali, contrapposti su più fronti. Entrambi dopo la caduta dell’URSS hanno intrattenuto rapporti con la NATO e poi con l’UE, ma l’Armenia con maggior vicinanza.
In Azerbaijan si parla una lingua turcica e la religione preponderante è l’Islam, in Armenia si parla una lingua indoeuropea e la religione principale è il Cristianesimo ortodosso (l’Armenia nel IV secolo divenne il primo Stato ufficialmente cristiano di sempre).
Negli anni Novanta l’Armenia occupò delle aree intorno e nell’Artsakh, ma già a fine 2020 l’Azerbaijan aveva riconquistato terreno nella Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh.
Il cessate il fuoco, mediato dalla Russia, aveva stabilito come collegamento fra la regione separatista e l’Armenia il cosiddetto corridoio di Laçın, la cui sicurezza fu garantita dall’Azerbaijan e gestita da peacekeeper russi.
Sono comunque seguiti scontri nel 2021, in particolare sul confine fra i due Stati e a dicembre 2022 il corridoio di Laçın è stato bloccato da sedicenti ambientalisti azeri, a loro dire preoccupati da supposte attività minerarie nell’Artsakh: la ricostruzione è stata messa in dubbio, come giustificazione a un de facto assedio che ha privato la popolazione locale di beni e servizi primari (peraltro con l’assenso o quantomeno l’inazione del Cremlino, che tale corridoio gestiva).
Nel corso del 2023 le tensioni hanno seguito un’escalation, secondo modalità che ricordano fin troppo da vicino quelle russe alle soglie dell’invasione dell’Ucraina: ammasso di mezzi azeri vicino all’Armenia e al Nagorno-Karabakh, con simboli che sono stati paragonati alla Z dei veicoli russi, “scaramucce” a marzo che hanno fatto vari morti nel corridoio di Laçın, fino a quel 19 settembre in cui l’Azerbaijan ha deciso di invadere la regione separatista.
La dicitura ufficiale azera è stata quella di misure antiterrorismo locali (consone al legalismo della guerra ibrida russa che abbiamo descritto su Vulcano), le quali hanno raggiunto la capitale secessionista Stepanakert (in azero Kharkendi) e comportato anche vittime fra i civili. Lo scopo dichiarato era la dissoluzione dell’autogoverno locale: già il giorno dopo le autorità dell’Artsakh hanno concordato un cessate il fuoco (comunque subito violato) e il 26 settembre il presidente locale Shahramanyan ha ceduto alla richiesta azera che dal 2024 l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh cessi di esistere.
Il territorio torna dunque anche de facto controllato dall’Azerbaijan, che ha garantito il rispetto dei diritti della popolazione armena ma in modo non abbastanza convincente, dato che i timori di un massacro di civili e di una vera e propria pulizia etnica hanno spinto oltre 100.000 abitanti a fuggire, perlopiù in Armenia (come testimoniato dal giornalista Sabato Angieri).
Oggi appare idealisticamente facile schierarsi dalla parte della popolazione armena, data l’imparità delle forze in campo e la sostanziale differenza fra la seppur fragile democrazia armena (retta dal primo ministro Pashinyan) e l’autocrazia azera (guidata dal presidente Aliyev, che governa da vent’anni, succedendo alla presidenza a sua volta ventennale del padre), peraltro ormai in pieno contatto con quella russa.
Inoltre questa settimana Aliyev ha rifiutato di recarsi al forum della CPE con gli altri Paesi europei, dove avrebbe dovuto incontrare Pashinyan.
La situazione è però molto più articolata e per coglierla non si può non tener conto della storia novecentesca del Nagorno-Karabakh: nell’Impero Russo, Armenia e Azerbaijan erano uniti nel Vicereame del Caucaso e l’Artsakh faceva capo alla città (oggi azera) di Elizavetpol.
Nel 1918, le popolazioni armene, azere e georgiane dichiararono l’indipendenza dalla Russia di Lenin, creando la Federazione Transcaucasica. Quando da quest’ultima fuoriuscirono le repubbliche di Armenia e Azerbaijan, il territorio dell’Artsakh (che peraltro si riteneva autonomo) fu da subito conteso, finché le forze britanniche non sostennero la sua assegnazione all’Azerbaijan.
Nel 1920 l’Armata Rossa trasformò Armenia e Azerbaijan in repubbliche socialiste (poi entrate nell’URSS): nel pieno della politica di riconoscimento delle identità locali nota come korenizatsiya, Stalin assegnò il Nagorno-Karabakh all’Azerbaijan (su pressione della Turchia di Atatürk).
Nel 1923 venne garantita autonomia alla regione (oblast’), anche se dai secondi anni Trenta il Caucaso fu investito dalla nuova politica staliniana di russificazione.
Fu solo con le innovazioni introdotte da Gorbačëv che gli autonomismi regionali ricevettero nuova spinta e, nel 1988, il soviet locale del Nagorno-Karabakh votò a favore dell’annessione all’Armenia: a ciò seguirono violenze e pogrom da parte di entrambe le popolazioni.
Nel frattempo l’URSS iniziava a sfaldarsi: nel 1990 l’Armenia dichiarò la propria indipendenza (ribadendo l’unione con l’Artsakh) e nello stesso anno l’esercito di Gorbačëv represse nel sangue gli indipendentisti azeri.
Le autorità sovietiche a inizio 1991 portarono avanti l’Operazione Anello, che risultò nella deportazione di massa di parte della popolazione armena del Nagorno-Karabakh.
A fine anno, mentre l’Azerbaijan secedeva dall’URSS, con un referendum il Nagorno-Karabakh scelse per la propria indipendenza, anche sulla scorta di una legge sovietica che permetteva agli oblast’ autonomi di non seguire una repubblica in secessione dall’Unione.
Scoppiò così la Prima Guerra del Nagorno-Karabakh, con massacri sui civili da entrambe le parti. Dal 1992 l’Armenia guadagnò terreno nelle terre intorno al Nagorno-Karabakh (da cui l’ONU chiedeva il ritiro), finché nel 1994 fu firmato un cessate il fuoco.
L’ONU ha ribadito l’opposizione alle forze armene con la ripresa degli scontri nel 2008 e nel 2016, seguiti nel 2020 dalla sopracitata Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh. Del resto, la repubblica separatista non è mai stata riconosciuta da nessun membro dell’ONU (nemmeno dall’Armenia, de jure). Prima del 2023, dunque, il conflitto fra le due nazioni era meno semplice di quanto possa apparire ora: l’Armenia era supportata logisticamente dalla Russia (nel 2010 il premier armeno aveva detto che la loro alleanza militare avrebbe reso «meno probabile una nuova guerra con l’Azerbaijan»).
Non solo: fino al 2023 uno dei ministri dell’Artsakh era l’oligarca russo-armeno Vardanjan, già sanzionato per via del suo impegno nell’operazione speciale in Ucraina, che a settembre è stato catturato e arrestato dalle autorità azere.
L’Azerbaijan invece nel 2020 era sostenuto dalla Turchia di Erdoğan e logisticamente da Israele, ma soprattutto dalla riluttanza europea ad affrontare un importantissimo esportatore di gas, specie dopo l’abbandono forzato degli oleodotti russi nel 2022, Italia in primis: attraverso il TAP pugliese, l’Azerbaijan è il nostro secondo maggior fornitore di gas naturale.
Inoltre a giugno 2023 l’azienda Leonardo, partecipata dal governo italiano, ha concluso una vendita di aerei militari con il governo azero.
La novità fra il 2020 e il 2023 è stata la rottura fra Putin e l’Armenia: quest’ultima ha progressivamente lamentato sempre di più l’inazione russa sul corridoio di Laçın e fino all’offensiva azera del 19 settembre ha tenuto congiuntamente all’esercito americano le esercitazioni Eagle Partner, che Mosca non ha apprezzato.
Dopo la perdita dell’Artsakh, l’Armenia ha inoltre simbolicamente aderito alla Corte Penale Internazionale, che ha emesso un mandato d’arresto per Putin.
Oggi il sostegno all’Armenia sembra non più terreno esclusivo della destra cristiana (così si esprimeva già nel 2020 Fratelli d’Italia) o dell’estrema sinistra (storicamente esposta in sostegno degli armeni in contrasto a Erdoğan, si veda il manifesto): anche l’ONU ha infine condannato il blocco del corridoio di Laçın.
Quello che sfugge dunque a certi schematismi da Guerra Fredda è che questa non è una mera proxy war novecentesca: due ideali come l’autodeterminazione dei popoli e l’integrità territoriale possono collidere (Ucraina docet), il passo verso l’etnonazionalismo è breve e soprattutto indipendentismo dell’Artsakh e irredentismo armeno non coincidono del tutto. Lo stesso premier Pashinyan è bersaglio delle critiche degli armeni delusi del Nagorno-Karabakh (e Il primato nazionale lo raccontava come un golpista al soldo di Soros), mentre l’oligarca Vardanjan è ora malvisto in Armenia, per le voci su un’ipotesi di annessione della regione alla Russia.
Quanto al futuro, certo la geopolitica (se spogliata del suo determinismo) può essere utile: il presidente azero Aliyev da mesi definisce l’Armenia un «Azerbaijan occidentale» e gli occhi sono puntati sul Naxçıvan, un’exclave azera circondata da terre armene. L’ipotesi temuta è che queste ultime possano essere occupate dall’Azerbaijan, in modo da creare continuità territoriale o, più in grande, una continuità filoturca da Ankara al Kazakistan, attraverso il Mar Caspio.