Forse non molti sanno che il Nobel per la letteratura è solito dare adito, tutti gli anni alla vigilia della sua assegnazione, a un persistente quanto silenzioso dibattito: qual è il motivo per cui lo scrittore giapponese Haruki Murakami, autore di opere pluripremiate conosciute in tutto il mondo, viene sempre nominato e tuttavia mai insignito del prestigioso premio?
Purtroppo, a questa domanda non può essere data risposta univoca, soprattutto considerando le logiche fortemente politiche che sottendono al conferimento della notoria statuetta dorata. Eppure, scavando più a fondo in quello che è l’universo iper surrealista all’interno del quale gravitano i romanzi di Murakami, si riesce a scorgere una motivazione (fra le tante), particolarmente interessante per cui l’autore in questione rappresenta una figura unica nonché estremamente criticata nel panorama letterario odierno: la descrizione e la narrazione relativa alle figure femminili presenti nelle storie raccontate.
Le opere di cui stiamo parlando, volendo utilizzare una metafora forse un po’ abusata, fanno sognare il lettore nel senso di convincerlo pienamente di essere stato trasposto in una dimensione onirica a ogni rigo letto e capitolo terminato; un vero e proprio fever dream se così possiamo chiamarlo. Sembra quasi che la stessa scrittura sia ricoperta di una patina superficiale, simile a carta velina, la quale si lacera a mano a mano che si procede fra gli eventi narrati. In sostanza, nulla all’interno di un romanzo di Murakami è di senso compiuto, non i personaggi, non il modo in cui ragionano o agiscono, non le ambientazioni e persino non i dialoghi.
In questo elenco sarebbe bene inserire anche la caratterizzazione di tutte le donne, ragazze, vecchie e bambine che, a volte sporadicamente, a volte spandendo la propria presenza lungo l’intero del filo del racconto, compaiono fra una riga e l’altra accanto ai protagonisti maschili.
Nella maggior parte della produzione letteraria dello scrittore è molto raro trovare una protagonista donna che esponga alla platea dei lettori sentimenti, pensieri e problematiche rispetto a ciò che effettivamente significa essere donna; o che semplicemente si ponga al centro della narrazione quale soggetto principale dell’azione, magari facendo qualsiasi altra cosa invece che comportarsi “da donna”.
Tuttavia, non è questo l’aspetto per cui molte critiche letterarie e figure di spicco tacciano lo scrittore di un’intrinseca misoginia narrativa (neanche troppo velata). Difatti, i personaggi femminili del mondo “murakaniano” sono tutt’altro che marginali rispetto al succedersi degli avvenimenti: essi, anzi, rappresentano, e soprattutto si comportano, come ponti che collegano la vita reale con realtà differenti, entrando e uscendo dalla narrazione allo stesso modo misterioso.
La loro unica funzione, nonostante questa caratteristica apparentemente essenziale, è totalmente dipendente dal protagonista uomo (solitamente un individuo scialbo e solitario alle prese con la risoluzione di un particolare problema), venendo dunque le stesse ridotte a meri veicoli per trasportare costui e le sue riflessioni piuttosto che avere personalità specifiche e complesse di cui l’autore potrebbe servirsi.
Questo aspetto sembra essere confermato da Murakami stesso in un’intervista rilasciata alla rivista statunitense Paris Review, in cui lo scrittore ammette che:
“Le donne sono messaggere del mondo prossimo a sopraggiungere. Ecco perché esse vengono sempre dal mio protagonista: lui non va da loro”.
E con tale affermazione tanto enigmatica quanto poco convincente Murakami sembra inoltre avvalorare la tesi per cui, stante il ruolo servente delle protagoniste sue creazioni, l’unica vera qualità femminile che emerge dalla vastità dei suoi romanzi è solo una: l’essere, per la donna, iper-sessualizzata. Che dunque il personaggio in questione sia piatto, monotematico, addirittura unidimensionale rispetto alla sua controparte maschile diventa elemento ancora più sgradevole nel momento in cui tale unica dimensione offerta allo stesso sia quella sessuale; ed è bene a questo punto portare degli esempi (attenzione agli spoiler, meglio specificarlo).
Partiamo con l’esempio principe che viene citato ogniqualvolta ci si accosti a questa discussione, esempio inerente al romanzo Dance, dance, dance:
il personaggio di Yuki, ragazzina di tredici anni dotata di poteri paranormali che accompagna il protagonista maschio in una serie di vicissitudini legate a un misterioso hotel situato nell’isola di Hokkaido. Yuki è molto intelligente, è in grado di percepire in anticipo le reazioni emotive delle persone e di capire se le si stia nascondendo qualcosa, ed è, inoltre, estremamente graziosa; trascurata per tutta la vita dai genitori e cresciuta nella solitudine del proprio appartamento di Tokyo, sviluppa un’improbabile (per non dire inquietante) amicizia con suddetto protagonista, che di anni ne ha ben trentaquattro.
Nonostante il rapporto puramente innocente e affettuoso che si instaura tra i due, e che per certi versi permette di dimenticare la stranezza della situazione, il libro è completamente costellato di riferimenti al corpo della ragazzina, alle forme che in seguito svilupperà e, come ciliegina sulla torta, dalla frase che più volte il suo compagno di viaggio ripete: «Se avessi avuto quindici anni mi sarei sicuramente innamorato di te».
Forse una cosa non del tutto opportuna da dire a quella che a tutti gli effetti è una bambina.
In un’altra opera da sempre in vetta alle classifiche fra gli scritti di Murakami, Kafka sulla spiaggia, questa caratterizzazione raggiunge nuovi approdi attraverso il personaggio della signora Saeki:
una donna misteriosa e seducente che passa le sue giornate a dirigere la piccola biblioteca cui in passato ha deciso di dedicarsi a seguito della morte del giovane fidanzato.
La signora Saeki è una figura quasi evanescente durante l’intero svolgersi della narrazione, c’è e non c’è quasi come un ricordo che necessiti di essere rievocato per vivere nelle conversazioni, nei luoghi e soprattutto nella memoria di chi resta; ma il suo ruolo non potrà mai essere confinato all’esistere semplicemente come saggia vedova solitaria, dovrà bensì ancora una volta adempiere alla propria funzione servente nei confronti del protagonista maschile, questa volta un ragazzo di quattordici anni che con il tempo, confusamente, si innamorerà di lei.
E l’amore, l’affetto, qualsivoglia emozione del tutto avulsa dal piacere carnale sfocia anche questa volta, irrimediabilmente, nell’attrazione sessuale: Tamura Kafka, il nostro protagonista, si prodigherà in dettagliate descrizioni delle notti in cui finalmente riuscirà a consumare un rapporto sessuale con la signora Saeki, andando dunque a svilire del tutto gli sbocchi narrativi di un personaggio che, almeno a parere di chi scrive, aveva delle potenzialità evidentissime.
Da ultima ma non per importanza, la dodicenne Mariye Akigawa, emblematico personaggio de L’assassinio del Commendatore:
la quale, fin dalla sua prima interazione con la voce narrante maschile e per tutto il corso del libro, continua insistentemente a chiedere opinioni sulla grandezza dei suoi seni, essendo fortemente convinta di averli sottosviluppati, richiesta che dopo pochi capitoli comincia a suonare come un’ossessione alle orecchie del lettore.
Su quest’ultimo aspetto è interessante citare una recente intervista che nel 2017 lo stesso Murakami ha accettato di sostenere a tu per tu con la brillante scrittrice e poetessa contemporanea Mieko Kawakami. Quest’ultima tenta infatti di tirare allo scoperto l’autore giapponese e costringerlo a interfacciarsi con quella che di fatto è la realtà letteraria emergente dalle proprie opere: un universo di donne nebulose, siano esse timide o spavalde, dinamiche o passive, casalinghe o lavoratrici, le quali assistono alla propria massima valorizzazione solo in presenza di dinamiche riguardanti la sfera sessuale.
Ciò che Kawakami vuole enfatizzare è proprio come le protagoniste femminili dei suoi romanzi siano costrette a rivestire un ruolo che sfocia eccessivamente in un’interazione di tipo sessuale per il mero fatto di essere donne, e questo nonostante la grandissima importanza introspettiva che esse donano e assumono all’interno delle pagine che le contengono; insomma, una richiesta di spiegazioni a cui si accompagna un’insinuazione neanche troppo velata.
Ma la risposta di Haruki Murakami, ancora una volta, ci riporta al punto di partenza:
per lo scrittore nessuno dei suoi personaggi è tanto complesso quanto il lettore pensa che esso sia; in questo modo la stessa sostanza filosofico metafisica di cui il romanzo è intriso torna a emergere violentemente, senza che ci si soffermi troppo a lungo su cosa gli uomini e le donne all’interno dell’azione stiano facendo o stiano dicendo. Lo scopo non è dunque di riflettere incessantemente sul senso dell’esistenza, sulle sue implicazioni o sulla sua importanza, né di creare personaggi che possano descriversi come individualisti.
Inoltre, e potremmo dire paradossalmente, il richiamo al sesso ha funzione purificante nel rapporto fra alcuni protagonisti, svuota l’aria da qualsiasi tensione in questo modo percepibile fra gli stessi; è questo proprio il caso di Mariye Akigawa, la quale si sente a suo agio nell’avere tale conversazione con un individuo che la stessa non considera né uomo né tantomeno oggetto sessuale (o soggetto sessuale in grado di avere tale tipo di rapporto con lei).
In conclusione, per Murakami, le donne attivano una sorta di metamorfosi nel protagonista maschile:
egli scopre, e si riscopre, grazie all’intervento di un elemento profetico, il quale però, in fin dei conti, verrà sempre sacrificato e si spersonalizzerà a vantaggio della differente personalizzazione dell’uomo.
Da una riflessione seppur incompleta come questa sembra quindi semplicistico ridurre a misogino un autore come Murakami, considerando anche che molti dei suoi personaggi femminili attraversano archi narrativi sorprendenti e si contraddistinguono per elaborare propri pensieri, risposte e riflessioni assolutamente penetranti e suggestive. Rimane in bocca l’amaro sapore di constatare che purtroppo, come sfortunatamente accade nella nostra reale e monotona quotidianità, le donne vivono ancora una volta non con l’uomo ma per l’uomo, facendo a tutti gli effetti quel tanto richiamato “passo indietro” il quale continua a far sbiadire la loro unica soggettività, alimentando in ultima analisi un divario che dal concreto arriva a toccare persino il fittizio.
Articolo di Vittoria Menga.