Del: 21 Ottobre 2023 Di: Redazione Commenti: 0

Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link è possibile trovare gli articoli precedenti della rubrica.

Milan Kundera, all’interno dell’ultima pagina del suo capolavoro “l’insostenibile leggerezza dell’essere”, porta all’attenzione dei lettori una spietata osservazione, una battuta che, forse più di ogni altra descrive l’ambiente in cui lo scrittore boemo sta vivendo:  «Tereza, una missione è una cosa stupida. Io non ho nessuna missione. Ed è un sollievo enorme sapere di essere liberi, di non avere nessuna missione» . Essenziale, scheletrico ma tagliente. E’ questo, un pensiero in sé annichilente, che torce il collo ad un ulteriori interpretazioni.

Tomàs, il protagonista del romanzo, sentenzia che non esiste alcun tipo di finalità in quello che si ritrova ad essere. Il vero cortocircuito è però rappresentato dalla seconda parte dell’esclamazione: il sentimento di viva e autentica libertà.

Tomàs non ha paura ad ammettere di sentirsi libero nell’assenza di missioni da portare a termine, nel più totale disinteresse nei confronti di una causa, che è pronto persino a schernire, a denigrare.

Non è un caso che il libro, divenuto poi un vero e proprio bestseller della letteratura contemporanea, sia stato pubblicato nel 1984: nel segno di una società che, in ogni angolo d’Europa, si apprestava ad interrogarsi, a proposito di un crollo da parte di quegli ideali monolitici, su cui l’Occidente aveva costituito i presupposti, politici e culturali, per fondare la propria identità.

Ciò che tange maggiormente il nostro paese durante questi anni, si riconduce proprio in quella mancanza di una missione vera e propria. Con gli anni ’80 si valica un periodo grigio, di incertezze e principi indefiniti, in cui la smania volta allo scontro nei confronti delle grandi istituzioni, che aveva caratterizzato i primi anni ’70, sembra solo un ricordo distante da cui sfuggire.

Dal sangue versato durante le lotte politiche del tempo, sorte dalla rottura da costumi e da un retaggio in cui ormai le nuove generazioni stentavano a riconoscersi, sorgerà il modello di un’Italia che quella leggerezza la inseguirà ossessivamente. Il Paese si impadronisce di un modo di agire, di pensare e di vestirsi proprio dell’oltreoceano, di quel regno incontaminato che, da New York a Los Angeles, produceva senza sosta, ostentando una precisa dialettica, improntata sul divertimento, su uno svago spregiudicato.

Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, a plasmarsi è dunque un sentimento collettivo di pura evasione, non dal pensiero dominante, bensì dall’oggetto politico in quanto tale; il quale si traduce nel processo di totale assimilazione, da parte delle classi più giovani ed economicamente abbienti, degli sprezzanti e vivaci costumi statunitensi.

Il passaggio logico che compie Tomàs in quelle righe, tra la comprensione della propria indifferenza, e la liberazione che ne consegue, si anela proprio nella scoperta di quegli adolescenti italiani, di un nuovo modo di essere felici: spingersi oltre i confini nostrani, abbracciando totalmente una cultura per loro vergine, disinteressata e disinibita dai conflitti, che avevano infervorato le piazze italiane pochi anni prima.

Se precedentemente, forse proprio i loro genitori calcavano quell’ondata di proteste che smosse la classe borghese dai loro ruoli e dalle posizioni sociali che ricoprivano; gli attori di quell’indecifrabile e per certi versi ancora misterioso ingranaggio politico, fuggono dal problema, ritrovandosi nei loro giubbotti sgargianti, nei centri commerciali e tra i Burghy e i McDonald’s di San Babila.

Ma che cosa ha portato ad un cambiamento così drastico?

Per comprendere la fuga da una missione, è necessario perciò ricostruirla in ogni suo spigolo, negli attori che vi parteciparono e nelle macerie che ha prodotto; le quali, seppur indirettamente, hanno influito ad un allontanamento, da parte della “gente comune”, nei confronti di quella macchina mortale, che è stata la politica durante gli anni di piombo.

Un numero, pur nella sua natura riduttiva e prettamente simbolica, si rivela un primo strumento utile a sintetizzare la catastrofe che ha prodotto un decennio di violenze terroristiche. 351 è il numero incriminato. Una cifra che racchiude gli uomini che hanno perso la vita per atti di violenza politica, fra il 1969 e il 1982.

Dalla bomba scoppiata nel 12 dicembre del 1969 in piazza Fontana, che causò le prime decine di vittime in quel tornado di violenza, fino agli ultimi rantoli di protesta al sorgere degli anni’80, appare chiaro come l’insorgere delle forze extraparlamentari sia affiancato ad un vero e proprio vuoto, lasciato dall’allora Partito Comunista Italiano, nei confronti di quei principi fondanti, legati indissolubilmente alla matrice rivoluzionaria. Se infatti fin dal mandato di Togliatti, la linea adottata aveva assunto i connotati di una “democrazia progressiva”, che così tendeva ad escludere naturalmente alcuni dei dogmi del partito, su tutti quella concezione ferrea di lotta aperta alle istituzioni; in un simile panorama, nacque in alcune organizzazioni l’intenzione di riprendere le radici ideologiche del marxismo, giustificando la violenza in quanto necessaria per rivelare gli aspetti più oscuri della repubblica.

L’omicidio, e quindi la partecipazione attiva alla lotta divenivano uno strumento per focalizzare il problema. Contestualmente, l’angoscioso ambiente europeo, tra il Portogallo di Salazar, la Spagna franchista e la Grecia dei colonnelli, dava luogo ad un secondo palcoscenico: il timore di un colpo di stato fascista.

I due grandi elementi, individuabili come l’origine scatenante di un fenomeno assai più complesso e per certi versi unico nella nostra storia, è giunto con gli anni ’80 a generare una narcotizzazione del fenomeno politico.

Ciò che interessa al momento culturale che si appresterà a sconvolgere queste dinamiche, intrecciate fra astio e repressioni turbolente, si ritrova nelle parole dello storico Marco Gervasoni: «più forte, da noi, si accese il contrasto tra i cittadini che accettarono l’accelerazione del tempo storico di volta in volta con entusiasmo, con realismo o con rassegnazione, e al contrario i grandi partiti politici di integrazione di massa, che fecero di tutto per frenare o perlomeno per rallentare la corsa, con il risultato di restare per tanti versi estranei al mutamento » .

Questo è il punto cruciale, di una involuzione della partecipazione politica, che trova ricadute nei giorni nostri: la rottura fra i cittadini e il partito.

Con gli anni ’70 infatti le forze partitiche di massa si erano adoperate per farsi baluardo di un certo modo di pensare, di un dato pensiero, di fatto divisivo e centralizzante del loro piano di azione. Dal sorgere di principi ideologici nei confronti dei temi più caldi su cui si dibatteva intorno a quegli anni di fuoco e rivolte, nei primi anni ’80 viene alla luce una dicotomia paradossale, che discerne il cittadino in quanto individuo da un’unità estranea, disumana ma al tempo stesso formata da moltitudini di uomini.

Mentre i partiti tentano di rimanere avvinghiati alle proprie lotte, alle proprie missioni; i cittadini ne prendono gradualmente le distanze, dimostrando un fascino per ciò che si trovava altrove. L’alienazione dalla cittadinanza attiva, si palesa in un netto arretramento delle forme classiche dell’opposizione politica; proprio in quell’area dove persino il singolo aveva trovato un ruolo di rilievo nel decennio appena passato, per affermare unproprio spazio di appartenenza.

Il grande, epocale spartiacque nella storia dell’impegno politico, avviene nel 14 ottobre del 1980 a Torino: l’inizio incombente, degli anni del reflusso.Fra la nebbia piemontese, infatti, migliaia di cittadini scendono in piazza per protestare. Ad infiammare le vie torinesi non si intravedono però visi di operai, proletari uniti per manifestare una necessità di sovvertire l’ordine, di riappropriarsi delle proprie libertà lasciate incustodite dai dirigenti delle grandi macchine aziendali.

Ebbene, la Marcia dei Quarantamila svela all’Italia un drastico cambio di rotta: nessun grido di protesta, né bandiere svolazzanti, solo una bieca e silente disapprovazione verso quelle forze operaie e quei sindacati, quel clima concitato che, oltre ad occupare fabbriche e indire proteste sanguinose, aveva lasciato un clima di frustrazione nel ceto medio.

La rivolta della controparte, di chi ha deciso di porre un freno ad una missione che ormai, nelle menti dei giovani e nell’immaginario collettivo pareva più volta ad una distruzione che alla ricostruzione di fondamenta, segna irrimediabilmente una svolta per le generazioni a seguire.

La leggerezza che ne conseguirà, sarà come iniettata nelle menti delle nuove generazioni, come architettata e voluta con grande pressione da quei lavoratori della Fiat. Il giovane che sorvola quegli anni confusi, fra le ultime grida rivoltose e le grandi mode che urlano alla lussuria, ad una ricchezza ostentata e sprezzante, sceglie di ignorare le prime e di farsi fermo sostenitore delle seconde.

Nasce infatti un rapporto di competizione fra l’attaccamento morboso al privato, ai capi di lusso e alle discoteche del centro; e quel desolato palcoscenico politico, accusato di “strumentalizzare”, di “lasciare poco spazio ai giovani”, come affermato nella maggior parte delle interviste che conserviamo di quel tempo.

Nei “paninari” di Milano, affrettati ad esibire il loro status sociale, il loro distacco da ciò che futilmente preoccupava pochi anni prima i loro coetanei, si scorge una alienazione che, nel profondo ci appartiene indissolubilmente .

In fondo ciò che abbiamo conservato, in questi quarant’anni che ci separano, è vincolato ad uno sfarzo che celi i dubbi su un futuro quantomai incerto, difficile come lo era il passato di quella società rimasta paralizzata, in una leggerezza che ad oggi, comprendiamo essere insostenibile.

Bibliografia:
“L’insostenibile leggerezza dell’essere”  Milan Kundera
Noi di ieri, noi di domani – Il Novecento e l’età attuale” A.Barbero, C.Frugoni, C.Scalarandis
Storia d’Italia degli anni Ottanta: quando eravamo moderni” Marco Gervasoni

Articolo di Marco della Rosa

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