Giovanni Berri e Cesare Hanau nel saggio L’esposizione mondiale del 1900 in Parigi spiegano che ci sono due modi di vedere l’Expo: come un grande bazar commerciale, incentrato sulla compravendita e solo secondariamente sulle scienze, oppure come congressi scientifici, volti al progresso incessante della tecnologia e della conoscenza.
Nella definizione più imparziale, l’Expo è l’Esposizione Universale, una fiera internazionale incentrata su un tema specifico, in cui ogni paese partecipante mostra il proprio contributo a proposito.
Il termine “fiera” racchiude sia l’atmosfera dell’evento sia l’orgoglio con cui ogni Paese mette in mostra il proprio lavoro, la propria cultura e la propria visione del futuro. Come ad una sfilata di alta moda, ogni Paese ci tiene a vestirsi nel modo migliore per fare una buona impressione al pubblico mondiale, stimolando il turismo, intavolando relazioni opportune e acquisendo credibilità a livello mondiale.
Restando nella metafora stilistica, l’abito è progettato e ideato dai migliori professionisti di ogni Paese ed è un padiglione, una struttura temporanea che ospita la mostra e altri ambienti. Ogni padiglione è espressione della cultura, del territorio, dello sviluppo del popolo che rappresenta.
Alcuni degli esempi più interessanti delle scorse edizioni dell’Expo sono il padiglione del Lussemburgo nella fiera di Dubai 2020 (effettivamente tenutasi tra l’ottobre 2022 e marzo 2023 a causa della pandemia di Coronavirus) e quello dell’Ungheria a Milano 2015.
La forma del primo ha lasciato tutti a bocca aperta: un nastro di Moebius, una superficie a una sola faccia e un solo bordo, attorcigliata su sé stessa. La continuità delle forme rappresenta la continuità del nostro tempo, in cui passato, presente e futuro sono strettamente connessi e si determinano a vicenda, ma sta anche a indicare quanto ciascun elemento del grande ecosistema in cui viviamo sia intrinsecamente collegato, tutto ha una conseguenza su tutto e ogni piccolo gesto può cambiare qualcosa. Una versione un po’ generalizzata dell’effetto farfalla.
Il padiglione Ungheria nel 2015 era una struttura ispirata all’arca di Noè, simbolo di salvezza per tutti gli esseri viventi del pianeta. Il riferimento biblico vuole rimarcare l’importanza di assicurare la sopravvivenza delle generazioni future, garantendo la sicurezza alimentare e la biodiversità.
L’“arca dell’Ungheria” non era interamente di legno, bensì di diversi materiali attinenti ad alcune architetture tipicamente ungheresi, come i granai, i silos rurali e le stalle. A poppa e a prua dell’arca, ecco due corpi circolari che richiamano la forma dei tamburi sciamanici, decorati con l’albero della vita, di nuovo simbolo di salvezza e allo stesso tempo riferimento all’acqua dolce naturale ungherese e alle sue famose proprietà termali.
Questi padiglioni sono stati smantellati alla fine dell’evento, ma non è sempre andata così. In numerosi casi, le costruzioni erette solo ed esclusivamente per l’Expo e destinate alla demolizione, sono state mantenute, diventando addirittura strutture iconiche, landmark di diverse città.
Dopo l’arcinota costruzione metallica appuntita ideata per l’Expo di Parigi 1889, si possono citare l’Atomium costruito per Bruxelles 1958, lo Space Needle eretto per Seattle 1962 e l’Habitat 67 per Montreal 1967. L’atomo belga, ingrandito di 165 miliardi di volte rispetto agli atomi reali, è ancora oggi la prima cosa che viene in mente pensando alla città sede della Commissione Europea.
Visto con gli occhiali del 2023, che all’epoca era lontano futuro, fa sorridere la struttura allampanata dello Space Needle, che doveva mostrare ai visitatori di Expo 1962 l’architettura del futuro. Oggi ospita un ristorante girevole nel punto più alto dei suoi 184 metri ed è uno dei simboli della città di Seattle. Ancora diversi sono la storia e l’aspetto di Habitat 67, progettato per Expo 1967 ma oggi diventato un complesso residenziale costituito da ben 354 unità modulari.
Non è invece sopravvissuto ai nostri giorni, distrutto da un incendio nel 1936, il Palazzo di Cristallo costruito per l’Expo di Londra 1851. Nonostante ciò, merita una menzione speciale: la sua struttura in ferro e vetro ha segnato una rivoluzione nella storia dell’architettura ed è ancora oggi fonte di ispirazione per nuove costruzioni.
L’involucro esterno è quello con cui i visitatori hanno il primo incontro, quello che fornisce la prima impressione, ma è solo il contenitore. È importante, sì, ma almeno tanto quanto il contenuto. L’abito non fa il monaco. Ad esempio, i Paesi che non hanno le risorse finanziarie per progettare e costruire un padiglione, ricevono degli spazi, piccole aree espositive in cui allestire la propria mostra. Non è raro che, a discapito della struttura molto poco attraente e appariscente in cui si trovano, queste mostre siano molto interessanti e ben organizzate.
Insomma, non solo architettura, ma anche cultura, progresso scientifico, ricerca medica, sfide ambientali, ecosostenibilità: di tutto ciò e molto altro si parla all’interno dei padiglioni. Molte invenzioni cardine per il progresso scientifico della società sono state presentate qui per la prima volta: il telefono di Bell fece la sua prima comparsa all’Expo di Filadelfia nel 1876 tracciando la strada che avrebbe portato, poco meno di un secolo più tardi, alla prima dimostrazione di un cellulare, svoltasi all’Expo di Osaka da parte di Toshiba.
Nel 1893, Nikola Tesla presenta al mondo la corrente alternata, che alimentò l’intera fiera, mostrandone la sicurezza e l’efficienza. Nel 1900 a Parigi, Rudolf Diesel presentò il suo motore a combustione interna che funzionava con olio di arachidi, introducendo così il diesel. L’Expo di New York del 1939 vide invece una delle prime dimostrazioni pubbliche della televisione da parte della RCA e la presentazione del primo robot umanoide, di nome Elektro, in grado di camminare, parlare e muoversi. Quello che oggi sembra un pesante pezzo di alluminio, allora era un’invenzione futuristica, una delle prime sperimentazioni nell’ambito dell’automazione.
Ma la Fiera Mondiale non riguarda solo scienza e tecnologia. È fatta di cultura, di società, di persone, e spesso si incrocia con la storia.
Durante l’Expo di Chicago del 1893, la Heinz Company distribuì assaggi di salsa per attirare i visitatori nel proprio stand, dove potevano assaggiare il ketchup, prodotto che da quel momento in poi divenne popolare. Thomas Cook, il fondatore della celebre agenzia di viaggi, organizzò il suo primo tour per l’Esposizione Universale di Parigi del 1855, dando inizio al turismo organizzato. A Saint Louis nel 1904 si diffonde il cono gelato così come lo conosciamo oggi ed è un successo epocale: in poco più di 20 anni nasce un’industria ricchissima negli Stati Uniti e nel mondo.
E naturalmente, le Esposizioni Universali sono inserite nel contesto storico di cui fanno parte. Ecco allora che nel 1904 a Saint Louis si poteva visitare la Mostra sulle Filippine, tristemente passata alla storia come il “più grande zoo umano della storia”. Gli indigeni vengono esposti come oggetti in un museo, mostrandone le tradizioni e gli stili di vita rudimentali. In un mondo caratterizzato dal colonialismo, episodi come questo, che oggi fanno rabbrividire, erano possibili e anzi, motivo di vanto per gli Stati Uniti, che avevano recentemente acquisito le Filippine.
In effetti, quella che era chiamata World’s Fair, la fiera del mondo, fino al 1970 è in realtà un evento prettamente europeo e statunitense, in cui Asia e Africa sono tagliate fuori (o, peggio ancora, sono coinvolte in qualche villaggio-esposizione come nel caso di Saint Louis). Le politiche colonialiste e imperialiste, i numerosi conflitti come la Guerra di Corea e quella in Vietnam, e il sotto-sviluppo dei paesi asiatici fanno sì che questi siano per molto tempo esclusi dalle sfilate internazionali.
Ma tutto cambia e si evolve a grande velocità: nel 1970, l’Expo approda a Osaka per poi tornare in Giappone nel 2005. Notevole è inoltre l’edizione del 2010 a Shangai, un’importante vetrina per la Cina, il cui ruolo globale viene da allora in poi riconosciuto da tutti.
La prossima edizione si terrà a Osaka, in Giappone, a tema Designing Future Society for Our Lives.
Nel titolo sono racchiuse numerose parole-chiave legate agli argomenti che si vogliono affrontare: il futuro, naturalmente, di cui è necessario prendersi cura nel presente, cercando di imparare dagli errori del passato; la società, un organismo così complesso e multiforme a cui bisogna fornire gli strumenti per evolversi nella libertà e nel rispetto di tutti; e le nostre vite – il termine “lives” vuole fare riferimento proprio alla vita biologica, intesa come capacità di crescere, riprodursi, avere attività funzionali e morire. La recente pandemia virale ha attaccato il nostro sistema immunitario e ci ha ricordato che siamo una specie vivente come tante altre e che non tutto è sotto il nostro controllo, come a volte si rischia di pensare.
Il logo si concentra su quest’ultima parte: è un assemblamento di forme ovali che simboleggiano l’unità primaria della vita, la cellula. Ma naturalmente una persona non è solo un insieme di cellule. Ecco allora che il cerchio dinamico in cui queste sono disposte vuole suggerire il movimento, l’armonia e la creatività che animano gli esseri umani.
A completare il design, alcuni occhi attenti compaiono nell’anello di forme circolari: forse un riferimento all’importanza di guardarsi attorno e ricercare con curiosità soluzioni e nuove strade per il futuro.
Nel frattempo, questo autunno verrà anche resa nota la decisione per la successiva edizione Expo 2030, per ospitare la quale si sono candidate Roma, Riad e Busan.
La candidatura di Mosca, presentata ad aprile 2021, è stata ritirata dopo l’invasione militare in Ucraina, mentre quella di Odessa, in Ucraina, è stata respinta dalla BIE. Ancora una volta, l’Expo deve fare i conti con la storia.
Dal punto di vista geografico, nessuna è particolarmente adeguata: Busan è molto vicino a Osaka, l’Arabia Saudita è accanto a Dubai, dove si è tenuta l’edizione del 2020, mentre l’Italia ha già ospitato a Milano l’Expo 2015. Sarebbe quindi forse più logico scegliere l’Europa per l’edizione del 2030, ma il fattore geografico sarà uno dei tantissimi – e dei meno rilevanti – che verranno presi in considerazione.
Insomma, l’Expo è una lunghissima e importantissima passerella su cui i Paesi di tutto il mondo sono chiamati a sfilare, vestiti del proprio abito migliore. Proprio come nella moda, dove ogni capo racconta una storia e anticipa le tendenze future, anche l’Expo offre un’anteprima delle innovazioni e delle collaborazioni che definiranno il nostro domani. E, come suggeriscono gli occhi nel logo di Osaka 2025, siamo tutti chiamati a guardarci attorno con curiosità, raccogliendo idee, materiali e soluzioni per costruire un futuro su misura per tutti.