L’uomo, grazie alle sue capacità intellettuali, è riuscito a dominare la terra ferma in quasi la sua totalità. Uno degli ambienti più alieni alla nostra specie ricopre i due terzi dell’intero pianeta: l’oceano. Grazie alle grandissime innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni siamo stati in grado di mappare appena il 20% dei fondali marini, numero molto in crescita considerando che fino a qualche anno fa risaliva al 5%, però visto che siamo in possesso di mappature molto più dettagliate della luna o di Marte ci troviamo ancora ad un punto di partenza.
Nell’oceano risiedono un sacco di organismi differenti, ognuno con un adattamento proprio posto alla sopravvivenza, e più andiamo a fondo e più curiosi sono gli escamotage utilizzati dagli abitanti marini. Per andare a saziare, almeno in parte, la sete di curiosità andremo ad analizzare i lofiformi, la famiglia delle cosiddette “rane pescatrici”, affascinanti per la loro morfologia, ma soprattutto, per un accoppiamento che richiede parecchia devozione e sacrificio, in particolar modo dalla parte maschile di questa specie.
Introduzione alla famiglia dei lofiformi
I lofiformi sono dei pesci predatori caratterizzati da una testa molto grossa, che arriva a ricoprire anche metà dell’intero corpo, da delle fauci enormi con all’interno una fila di denti aguzzi, e la presenza della celebre appendice carnosa chiamata ilicio, da cui fuoriesce, tramite il fenomeno della bioluminescenza, una luce naturale utilizzata per attirare le prede. Difatti la caccia per questi piccoli, e visivamente lugubri, pesci consiste in un’attesa lunghissima, in cui rimangono immobili, aspettando che qualche pesce risedente negli abissi, incuriosito da quella luce in mezzo all’oscurità, si avvicini e finisca il proprio ciclo vitale nell’ampiezza delle loro fauci.
Non ritroviamo alcuna presenza di squame, il loro corpo generalmente è di forma schiacciata o tarchiata ed è formato da uno scheletro ricoperto interamente dalla pelle. Le dimensioni variano dai 3 ai 20 centimetri, tranne per le rane pescatrici che possono arrivare anche a 2 metri di lunghezza, e grazie ad uno stomaco elastico possono mangiare tranquillamente anche prede più grosse di loro. Li si trovano in un range che va dai 20 fino a superare i 1000 metri sotto la superficie del mare, difatti i pesci che vivono così a fondo sono definiti abissali. Le specie che vivono a quelle profondità sono costrette ad un ambiente estremo in cui neanche i raggi del sole riescono ad arrivare, di conseguenza anche il cibo, e la vita stessa, scarseggiano obbligando i lofiformi al cannibalismo nell’eventualità in cui il pesce abissale di turno, di cui si cibano, non si presenti.
Una riproduzione inaspettata
Come ben sappiamo la capacità di riproduzione determina l’estinzione o il proliferare di una qualsiasi specie, e proprio alla riproduzione è votata l’intera vita del maschio lofiforme. Il dimorfismo sessuale è molto evidente, i maschi sono molto più piccoli delle femmine e nel caso del melanoceto (conosciuto anche come diavolo nero) le femmine raggiungono una lunghezza di 18 centimetri, mentre un maschio adulto non supera i 3 centimetri. La maggior parte dei lofiformi si accoppia attraverso un processo chiamato parassitismo sessuale: al momento dell’accoppiamento il minuscolo maschio si attacca alla femmina, mordendola e dando inizio ad una procedura di fusione dei tessuti cutanei, alla fine del quale il maschio diventa parte integrante della femmina, e avendo unito anche i vasi sanguigni prende sostentamento direttamente da essa.
A partire da questo momento lo scopo del maschio è compiuto, e servirà unicamente per fecondare le uova. Questa fusione è resa possibile dall’assenza dei geni che dovrebbero produrre gli anticorpi, dunque, l’organismo non è attrezzato per rilevare il tessuto estraneo al proprio come una minaccia, al contrario di noi esseri umani che per il trapianto di un organo scateneremmo una fortissima risposta immunitaria. Chi l’avrebbe mai detto che da un pesce così piccolo, proliferante in un luogo così inospitale, derivasse una devozione sconfinata per la conservazione della specie?
Articolo di Federico Antuoni