Del: 25 Novembre 2023 Di: Michela De Marchi Commenti: 1

Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”.

Sono le parole di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, riportate dal Corriere della Sera in una lettera in cui la giovane parla di “cultura dello stupro” e di “patriarcato“.

La morte di Giulia ha lasciato rabbia, paura, frustrazione e stupore: queste emozioni sono determinate dal fatto che tragedie simili, purtroppo, continuano a succedere e non vanno minimizzate, come spesso accade. Proprio per non sminuire gli avvenimenti, le associazioni femministe e quelle che si occupano di violenza di genere insistono sull’importanza dell’utilizzo del termine “femminicidio”: molti casi di omicidio sono riconducibili a una dinamica in cui la donna è costretta a vivere oppressa dall’uomo e qualsiasi tentativo di liberazione viene punito con aggressioni e troppo frequentemente con la morte. Nell’espressione “violenza di genere” rientrano tutte le forme di violenza: psicologica, fisica, sessuale, gli atti persecutori, lo stalking e lo stupro, fino all’uccisione.

Secondo i dati Istat, il 31,5% delle donne comprese tra i 16 e i 70 anni (6 milioni 788 mila) nel corso della propria vita ha subito violenza fisica (20,2%), sessuale (21%), stupro o il tentato stupro (5,4%). Costantemente però le donne subiscono minacce, sono spintonate, oggetto di schiaffi, calci, pugni e morsi, strangolate, ustionate e soffocate.

L’Italia, inoltre, è tra i 5 Paesi europei con il più alto numero di donne vittime di femminicidio; insieme a Germania, Francia, Regno Unito e Spagna. Tenendo presente i dati di Unodc, l’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, nel 2023 sono stati registrati 225 omicidi con 77 vittime donne, di cui 61 uccise in ambito familiare o affettivo; di queste, 38 morte a causa del partner o dell’ex partner. Considerando lo stesso periodo dello scorso anno, gli omicidi commessi erano stati 215, quindi si registra un aumento del 5%; i delitti commessi in ambito familiare o affettivo invece sono aumentati del 2%.

A fronte di questi numeri, l’appello di Elena Cecchettin è da intendersi come un atto d’accusa verso la società, che dovrebbe prendersi le responsabilità per avvenimenti del genere: questi “mostri” di cui si parla sono in realtà “figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling”.

La natura del presente fenomeno è, inoltre, fortemente determinata da stereotipi, pregiudizi e discriminazioni di genere con narrazioni che perpetuano una rappresentazione sociale della violenza, mistificando il fenomeno e riducendo le responsabilità dell’aggressore. Sui media spesso si legge di uno squilibrio tra uomo e donna nella rappresentazione del colpevole: la parte maschile, insieme ai suoi reati, scompare e su quella femminile ricade un linguaggio colpevolizzante, definito “victim blaming“.

Si ritiene quindi che la vittima sia responsabile di quanto accaduto: sia direttamente, ad esempio riferendosi ai vestiti o al comportamento della donna, oppure indirettamente, analizzando i suoi stili di vita.

A ciò si aggiunge anche il fatto che nella cultura di massa esiste il concetto di “amore criminale”: in realtà se è criminale, non è amore e questi atteggiamenti vanno individuati ancora prima che possano portare alla morte. Controllo ossessivo, scatti violenti con successivi pentimenti lacrimosi e richieste come esaminare il telefono dell’altra persona sono solo alcuni dei comportamenti che questo “amore” assume; e Filippo Turetta faceva anche questo.

“Viene spesso detto ‘non tutti gli uomini’. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini – ha detto Elena Cecchettin -. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio”.

Dopo l’avvenuto femminicidio si sono alzate le voci indignate secondo cui si dovrebbe partire dalla scuola, introducendo l’ora di “educazione alle relazioni”, decisa dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, come parte di un piano contro la violenza sulle donne per la scuola. Si tratta di un’ora in più in classe, per tre mesi l’anno e un totale di dodici incontri: gli studenti, seduti in circolo, sarebbero divisi in gruppi “di discussione e autoconsapevolezza”, con poi il supporto occasionale di psicologi, avvocati, assistenti sociali e il coinvolgimento di influencer, cantanti, attori. Le disposizioni del progetto, in realtà, appaiono superficiali: le direttive non hanno un valore prescrittivo e non sono creati vincoli per le scuole, ma  offre delle linee guida per quelle che vogliono aderire. Non solo il piano non è obbligatorio per gli istituti, ma sarà svolto in orario extracurricolare e potrà essere attuato solo con il consenso dei genitori degli studenti e quello degli alunni stessi. Per Elena Cecchettin “Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno”.

Elena Cecchettin

Se da una parte si propongono iniziative per contrastare la violenza di genere, dall’altra alla votazione tenutasi al Parlamento Europeo nel maggio 2023 per le risoluzioni che chiedevano all’Unione Europea di aderire alla Convenzione di Istanbul, Lega e Fratelli d’Italia si sono in maggioranza astenuti e due deputate della Lega hanno votato contro.

La Convenzione di Istanbul è un trattato internazionale contro la violenza domestica e sulle donne, di fatto è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per prevenire e contrastare il fenomeno.

Essa individua le radici della violenza di genere nella disuguaglianza che persiste rispetto all’uomo: sostiene che la discrepanza sia strutturale e legata ai “ruoli di genere”, ovvero quelli che tradizionalmente vengono assegnati a maschi e femmine. La questione del “gender” è stata oggetto di critiche da parte delle organizzazioni cristiane e dei movimenti conservatori e di estrema destra: proprio dalla “promozione dell’ideologia di gender” nasce l’astensione e la contrarietà dei due partiti italiani.

Approvata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, inizialmente era stata firmata dai 45 paesi membri del Consiglio d’Europa, poi ratificata da 34 stati, tra cui l’Italia nel 2013. È con il processo di ratifica che un paese diventa obbligato ad adeguare le proprie leggi alle regole previste dall’accordo; il quale ha l’obiettivo di «proteggere le donne contro ogni forma di violenza».

In Italia, limitatamente al diritto penale, oggi il termine “femminicidio” non esiste e non indica un reato a sé: sono considerati al pari di qualsiasi altro omicidio, anche se esistono delle aggravanti, come per esempio la parentela con la vittima o la concomitanza di altri reati, come maltrattamento o violenza sessuale. Ricordando ancora le parole di Elena: “Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere”.

Michela De Marchi
Studentessa di Scienze umanistiche per la comunicazione che aspira a diventare una giornalista. Sono molto ambiziosa e tendo a dare il meglio di me in ogni situazione. Danza, libri e viaggi sono solo alcune delle cose che mi caratterizzano.

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