Il 7 ottobre Hamās ha dato inizio alla sua offensiva contro Israele con l’operazione alluvione Al-Aqsa. Un’operazione via terra, via mare e via aria senza precedenti, sia per il numero di persone uccise sia per l’efferatezza con cui è stata compiuta. La comunità internazionale ha denunciato fermamente l’attacco, ricordando che Hamās è considerata un’organizzazione terroristica, tra gli altri, da Stati Uniti e Unione Europea. Era da tempo, fortunatamente, che un attacco terroristico di questa portata non attirava l’attenzione dell’occhio mediatico internazionale, tanto che quello di Hamas è stato chiamato da qualcuno l’“11 settembre di Israele”.
Ma che cosa evoca in noi la parola terrorismo? Quale valenza giuridica ha questo termine?
La premessa da cui partire è che a livello internazionale non esiste una chiara, univoca e accettata definizione del concetto di terrorismo. In base allo Statuto di Roma che nel luglio 1998 ha istituito la Corte penale internazionale (Cpi), e che è entrato in vigore l’1 luglio 2002, la Corte esercita la propria giurisdizione sui cosiddetti “crimini internazionali” elencati all’articolo 5 dello Statuto, ossia crimine di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. Del crimine di terrorismo, nessuna traccia.
Tra i motivi per cui le proposte di emendare lo Statuto aggiungendo questo crimine non hanno trovato accoglimento vi è, primo fra tutti, il timore espresso dalla comunità internazionale di un rischio di sovraesposizione politica della Corte. Ma viene da chiedersi: gli altri crimini perseguiti dalla Corte sono davvero a-politici? Non si nasconde, forse, dietro questo vuoto semantico e giuridico, la volontà e l’interesse di molti Stati a mantenere ancorato il termine “terrorismo” al quadro della propria esperienza storica e a proprie considerazioni di carattere politico?
Il modo in cui definiamo la natura di un fenomeno sociale influisce notevolmente sul modo in cui lo affrontiamo.
Non sono poche, infatti, le ripercussioni che la mancanza di una definizione chiara di terrorismo ha avuto (e continua ad avere) sul piano nazionale e internazionale. Prima fra tutte, la disorganicità delle risposte da parte della comunità internazionale di fronte a crimini terroristici.
Se da un lato il primo ministro israeliano ha dichiarato che «Hamās è l’Isis e l’Isis è Hamās», dall’altro il presidente turco Erdoğan ha sostenuto che «Hamās non è un’organizzazione terroristica, ma un gruppo di combattenti che agisce per la difesa e la liberazione del proprio popolo e della propria terra». Il rischio di un uso arbitrario e di convenienza del concetto di terrorismo è se non altro evidente.
Tale arbitrarietà ricorda, per certi versi, il caso dei mujahidin afgani, dapprima celebrati nel 1985 dal presidente statunitense Reagan come combattenti per la libertà in guerra contro l’invasore sovietico, e in seguito denunciati dalle successive amministrazioni come terroristi, per il loro sollevamento contro la presenza statunitense in Afghanistan.
Anche per quanto riguarda Hamās la strumentalizzazione del termine “terrorismo” sembra essere in atto.
Da una parte il presidente turco, forte della convinzione che la Turchia sia ben posizionata per agire da mediatore in questo conflitto, sta sfruttando a proprio vantaggio la crisi. Infatti, nonostante Erdoğan continui a intrattenere rapporti con Hamās, tanto da definirla un gruppo di combatterti per la libertà, per l’Occidente (che invece propende per la definizione di organizzazione terroristica) la Turchia rappresenta ancora un partner prezioso per dialogare anche con Hamās; questo, oltretutto, funge da protezione per il governo di Erdoğan di fronte ad eventuali sanzioni.
Dall’altra parte del fronte, invece, il primo ministro israeliano Netanyahu, per rafforzare il più possibile la causa di Israele, sta facendo leva sulla natura terroristica dell’organizzazione Hamās, tanto da equipararla continuamente all’Isis. «Dobbiamo sconfiggere questa barbarie: è una battaglia tra le forze di civiltà», ha dichiarato.
L’obiettivo di Netanyahu sembra ben preciso: costruire l’analogia Hamās-Isis serve a portare la collettività ad accettare più comprensibilmente una contro-reazione violenta da parte di Israele. Facendosi scudo con il terrore che evoca Hamās per le brutali azioni compiute, Netanyahu ha autorizzato l’esercito israeliano a compiere una serie di efferati attacchi, che costituiscono crimini contro l’umanità secondo la Corte penale internazionale, a danno della popolazione palestinese. Ma questi vengono derubricati a semplici effetti collaterali.
Dall’inizio del conflitto sono stati uccisi più di 9.000 palestinesi di cui circa 4.000 bambini, ma anche questo sembra essere descritto come un semplice effetto collaterale.
Sono stati portati a termine attacchi indiscriminati che non hanno fatto distinzione tra obiettivi civili e obiettivi militari. Ancora effetti collaterali. L’importante è annientare Hamās.
Come messo in evidenza anche da un report redatto nel giugno 2023 con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, la connotazione morale intrinseca al termine terrorismo è fortissima: si tratta di una locuzione valutativa di tipo politico-normativa, il cui utilizzo ha la conseguenza di mettere totalmente fuori gioco il gruppo avversario.
A tal proposito, nessun dubbio sul fatto che Hamās sia un’organizzazione terroristica; il punto, però, è che dietro la costante degradazione verbale dell’avversario e dietro la ripetuta equiparazione di Hamās con l’Isis, si cela il messaggio che una mediazione sarà del tutto impossibile. Nessun “cessate il fuoco”, nessuna “pausa” potrà essere concordata con un gruppo criminale. E questo autorizza Israele a procedere con attacchi indiscriminati che ogni giorno fanno perdere la vita a centinaia di civili.
La mancanza di una definizione chiara e universalmente accettata di terrorismo ha quindi questa come prima conseguenza: dare adito a strumentalizzazioni e a distorsioni del termine, oltre che a una poco chiara distinzione tra «crimini contro l’umanità» e «crimini terroristici», con una netta svalutazione, a livello di impatto emotivo, dei primi, nonostante il fatto che solo questi rientrino nell’ambito di quei «crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale» contemplati dallo Statuto di Roma e perseguiti dalla Corte penale internazionale. Incoerenza? Forse convenienza.
Altro punto critico: in assenza di un unico parametro internazionale di riferimento, come è possibile stabilire con certezza quando si è in presenza di un crimine terroristico?
Chi può compierlo? Solo gruppi sub-statali o anche Stati? Se si accettasse la prima ipotesi, si dovrebbe inevitabilmente convenire che qualsiasi atto violento portato avanti da uno Stato non possa essere terrorismo, a prescindere da quanto terribile possa essere. Se si accettasse la seconda ipotesi, invece, difficilmente si potrebbe negare che anche Israele abbia compiuto atti degni dell’attributo “terroristici”.
Come altro potrebbero essere definiti, infatti, gli oltre 700 attacchi che nel corso del 2022 i coloni israeliani hanno condotto contro la popolazione autoctona palestinese della Cisgiordania? Sempre nel 2022 sono state almeno 95 le morti di persone palestinesi che stavano partecipando disarmate a proteste o manifestazioni. Che definizione è stata data, a livello internazionale, a questi attacchi?
Infine, l’insistenza del primo ministro israeliano sulla natura terroristica dell’organizzazione Hamās rischia di riportare in superficie rancori, odi e intolleranze di natura ideologica che nelle situazioni di maggior tensione trovano facilmente via di uscita. Il rischio di una radicalizzazione estrema è vivo da entrambe le parti del fronte, con la differenza che a Gaza i civili stanno sopravvivendo in condizioni disumane.
Nel 2006 il Guardian, a proposito della guerra in Iraq, pubblicò alcuni passaggi di un documento preparato per un think tank del Ministero della Difesa britannico, tra i quali si legge: «La guerra in Iraq (…) ha funzionato come un sistema di reclutamento di estremisti in tutto il mondo islamico (…) l’Iraq ha radicalizzato una gioventù già disillusa ed al-Qāʿida ha fornito la volontà, l’intento, lo scopo e l’ideologia per agire».
Non è forse evidente che anche oggi siamo di fronte al rischio concreto di una forte radicalizzazione?
Se Netanyahu continuerà a procedere indiscriminatamente contro il popolo palestinese e ad esacerbare il dibattito pubblico facendo del conflitto una questione di civiltà, che reazione possiamo aspettarci da un popolo che in questa guerra era già distrutto in partenza?
Per tutti questi motivi, è necessario fare chiarezza. È necessario abbattere luoghi comuni e stereotipi da una parte e dall’altra del fronte. È necessario parlare non di civiltà ma di politica.
È necessario che la comunità internazionale prenda il coraggio di dare una definizione chiara e universale di terrorismo, così come ha fatto per tutti gli altri crimini internazionali di cui si occupa la Corte penale internazionale, così da evitare assenze ingiustificate agli appelli collettivi di condanna e così da impedire strumentalizzazioni del termine per spostare il conflitto da un piano politico a un piano puramente ideologico.