
Nella mattinata di domenica 5 novembre, a Calamba, città del sud delle Filippine, il giornalista Juan Jumalon conduce il suo programma in diretta radio e Facebook. Improvvisamente un uomo, fingendosi un ascoltatore, fa irruzione nella stanza dove si trova Jumalon, uccide il giornalista con due colpi di pistola e poi fugge. Il tragico caso della morte di Juan Jumalon, di cui ancora non è stato trovato il colpevole, riporta l’attenzione sui gravi pericoli che corrono i giornalisti nelle Filippine.
Nonostante la Costituzione preveda libertà di espressione e di stampa, questo Paese rimane uno dei luoghi più pericolosi al mondo per i reporter, che subiscono quotidianamente attacchi penali, minacce e violenze fisiche.
Secondo l’Unione nazionale dei giornalisti, Jumalon è il quarto cronista ucciso quest’anno nelle Filippine e il 199esimo dal 1986, anno in cui la democrazia fu ristabilita dopo la fine del regime dittatoriale di Ferdinand Marcos. Inoltre, nell’ottobre 2022, il Paese ha ricevuto un rimprovero da parte del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione, in seguito alla conferma, da parte della Corte d’Appello filippina, della condanna per diffamazione ai danni di Maria Ressa, giornalista simbolo della lotta per la salvaguardia della libertà d’espressione. Ressa fondò nel 2012 il sito web Rappler, che presto divenne il fulcro del giornalismo investigativo filippino e che da ormai un decennio è per lei causa di minacce, vessazioni politiche e arresti.
Il numero di giornalisti uccisi nell’ultimo anno, malgrado la sua drammaticità, potrebbe essere interpretato come un dato relativamente piccolo. In realtà, però, le limitazioni alla libertà di stampa hanno spesso conseguenze “invisibili”, che rendono complicata l’analisi completa del fenomeno a causa di un’errata percezione delle sue reali dimensioni. Tra queste vi è il cosiddetto “Chilling Effect”, per cui la minaccia di ripercussioni legali, inducendo timore, porta i giornalisti all’autocensura.
Ciò porta silenziosamente all’impoverimento del pluralismo delle informazioni e del dibattito pubblico, a discapito della democrazia nel suo complesso.
La continua violazione delle libertà di stampa e di espressione e l’elezione del Presidente Ferdinand Marcos Jr, figlio del dittatore Ferdinand Marcos, che dal 1965 al 1986 trasformò le Filippine in uno dei regimi autoritari più violenti dell’Asia, sono segnali allarmanti per la stabilità e il buon funzionamento delle istituzioni democratiche del Paese.
Infatti, anche se dal 1986, in seguito a una rivolta popolare contro la dittatura di Marcos, le istituzioni democratiche furono ristabilite nello Stato, nell’ultimo rapporto di Freedom House, che misura il grado di libertà civili e di diritti politici nei vari Stati, le Filippine rientrano nella categoria dei Paesi “parzialmente liberi”.
Tra le cause principali di questa categorizzazione vi è proprio il ritorno del cosiddetto “Clan Marcos” al potere e la massiccia campagna di disinformazione da questo svolta.
Infatti, uno dei fattori chiave del successo politico di Ferdinand Marcos Jr è stato lo sfruttamento pervasivo dei social media, utilizzati nel periodo precedente alle elezioni come canali per diffondere una narrazione storica distorta, volta ad enfatizzare l’immagine positiva della famiglia Marcos. È nato così un sentimento di falsa nostalgia riguardo gli anni della legge marziale, descritti come un periodo d’oro per l’economia e per la società filippine.
In realtà, tra il 1965 e il 1986, la famiglia dell’attuale Presidente provocò la più grande crisi economica nella storia recente delle Filippine, i cui effetti catastrofici non sono ancora stati del tutto risanati. Il 23 settembre 1972, Marcos annunciò l’imposizione della legge marziale in tutto il Paese. Questa rimase in vigore per 14 anni, e consentì al dittatore di governare le Filippine in maniera autocratica, evitando le elezioni e usando le forze di sicurezza per reprimere l’opposizione.
Attualmente, nonostante il Presidente Marcos Jr abbia condannato ogni forma di violenza contro i giornalisti, nelle Filippine vige ancora il sistema “red-tagging”.
Implementata nel 1969 con la motivazione ufficiale di combattere i gruppi comunisti e maoisti, la “marcatura rossa” da allora è diventata uno strumento distruttivo per sedare il dissenso.
L’ex Presidente Duterte ha usato il pretesto del “red-tagging” per reprimere attivisti e dissidenti. Ancora oggi, nelle Filippine, chiunque critichi il governo può essere “etichettato in rosso”.
La morte di Jumalon ha riacceso la pressione degli attivisti e della comunità internazionale nei confronti del governo di Ferdinand Marcos Jr. Il figlio del dittatore conosciuto per aver incarcerato, torturato e ucciso decine di migliaia di dissidenti (tra cui molti giornalisti), è ora chiamato ad una maggiore difesa dei diritti umani, primi tra tutti la libertà di espressione e quella di stampa, oltre che al ripensamento delle istituzioni democratiche del Paese.