Del: 18 Novembre 2023 Di: Beatrice Lanza Commenti: 0
Protocollo migranti Italia-Albania, una panoramica

È risaputo: per gli Stati dell’UE è difficile collaborare quando si tratta di persone migranti. La gestione comunitaria dell’immigrazione, soprattutto proveniente dal Mediterraneo, è un argomento di cui nella famiglia europea non si parla volentieri, anche se i suoi membri affacciati sulle coste meridionali del continente tendono (sempre di più) a voler tirare fuori questo scheletro dall’armadio. Nell’attesa che l’Unione dia loro risposte più soddisfacenti, dunque, questi Paesi gestiscono autonomamente il fenomeno, talvolta rivolgendo lo sguardo a Paesi extracomunitari. Ed è ciò che sta cercando di fare anche il governo di Giorgia Meloni in Italia.

Il più recente tentativo in materia è stato finalizzato molto di recente, il 6 novembre scorso, quando la nostra Presidente del Consiglio ha stipulato con Edi Rama, Primo Ministro albanese, un protocollo volto alla costruzione di due centri di detenzione e rimpatrio per migranti in Albania.

Nonostante la collocazione geografica, però, tutto ciò che concerne questi due hub è sottoposto alla legge italiana e comunitaria: dai rapporti di lavoro con i dipendenti delle strutture fino al trattamento delle persone migranti.

Nei centri saranno presenti le forze dell’ordine italiane, mentre a quelle albanesi sarà concesso di accedere soltanto in ristrettissime ipotesi d’emergenza, come l’incendio. Inoltre, il Governo albanese si impegna, fra le altre cose previste dai 14 articoli del Protocollo, a facilitare l’ingresso del personale italiano senza necessità di visto, a rendere esenti da dazi e imposte indirette le spese di costruzione dei centri e addirittura a concedere a titolo gratuito l’utilizzo di una parte del proprio territorio nazionale.

Da queste poche informazioni emerge già una perplessità: perché l’Albania dovrebbe concedere gratuitamente dei suoi spazi ad un Paese straniero, il cui personale fra l’altro non sarà soggetto alla legge albanese (eccetto pochi casi di responsabilità penale) ma alla propria legge nazionale? Che cosa ricava, in parole povere, l’Albania da questo accordo? A detta dello stesso Edi Rama: «Nulla, non solo perché non abbiamo chiesto contropartite, tantomeno economiche, ma non ne vogliamo. Questo non è un accordo commerciale ma di fratellanza e vicinanza». Un vero atto di generosità, insomma, da parte del paese balcanico.

Con una punta di cinismo, tuttavia, si potrebbe sostenere che in politica non c’è spazio per la generosità: risulta quantomeno difficile credere che una cessione di sovranità di questo tipo non sottenda un qualche interesse, anche non economico. Un’interpretazione delle intenzioni dell’Albania potrebbe essere legata al fatto che il Paese sta affrontando un lungo percorso, iniziato nel 2009, per entrare nell’Unione Europea, e che quindi questo “favore” fatto all’Italia possa servire per ottenerne l’appoggio in sede comunitaria. O, comunque, a dimostrare all’Europa la propria disponibilità a collaborare nella spinosissima gestione degli immigrati extracomunitari. Per onestà intellettuale, deve essere riportato che Rama ha negato di aver “ragionato in quell’ottica” in un’intervista con il Corriere della Sera.

E che dire del lato italiano? Che cosa ricava la “parte italiana” (com’è chiamata nel testo del protocollo) dall’accordo siglato il 6 novembre? Risulta inesatto parlare di una vera e propria “esternalizzazione” della gestione delle persone migranti, poiché di fatto di questa si occupa l’Italia, sia da un punto di vista economico sia di conduzione delle operazioni di identificazione ed eventuale rimpatrio. È comunque l’Italia ad accogliere i migranti salvati dalle proprie navi nel Mediterraneo (l’accordo non riguarda, invece, chi è imbarcato dalle ONG), semplicemente ciò non avviene a Lampedusa ma a Shengjin, porto situato a circa 70km a nord di Tirana, e a Gjader, paese dell’entroterra albanese.

L’unica altra differenza, oltre a quella di luogo, nella gestione delle persone migranti in questi nuovi centri riguarda i costi dell’operazione, aumentati dalla necessità di trasferimento di chi arriva sulle coste del Sud Italia fino in Albania.

Tra Lampedusa e Shengjin, infatti, vi sono tre giorni di navigazione che le imbarcazioni della flotta italiana dovrebbero compiere continuamente, avanti e indietro, cariche di migranti spesso in condizioni di salute precarie. Una tratta continua di questo tipo non potrà che gravare, oltre che sulla salute di chi viene trasportato, anche sulle casse dello Stato italiano e sui fondi europei per la direzione del fenomeno migratorio.

Sono proprio aspetti come questo che hanno fatto storcere il naso all’Unione Europea. Quest’ultima si è mostrata contrariata per non essere stata interpellata dal Governo italiano prima di stipulare un trattato con un Paese extra-UE sulla gestione di un fenomeno che, come ricordato all’inizio, i Ventisette cercano faticosamente di regolamentare e coordinare insieme. Sono vari i rilievi legali mossi dall’Europa e dall’interno del nostro paese sulle “zone grigie” del protocollo: dall’extraterritorialità delle procedure di asilo (non permessa dal diritto europeo, nonostante ci siano discussioni in corso sul tema), al rispetto delle garanzie procedurali; dall’utilizzo della detenzione de facto dei richiedenti asilo, alla violazione del principio del “porto sicuro più vicino” per le persone recuperate in mezzo al Mar Mediterraneo.

Su tutti questi aspetti sta ragionando la Commissione Europea, al momento impegnata nel vaglio del protocollo. Non tutti gli osservatori europei, però, ritengono discutibile il patto italo-albanese. Il cancelliere tedesco Scholz, infatti, ha commentato che in fatto di immigrazione non si può pensare di “vincere le sfide da soli”, riferendosi sia ai meccanismi interni all’UE (e in particolare al Sistema europeo comune d’asilo) sia ai sempre più inevitabili rapporti con paesi extracomunitari sull’aspetto migratorio. Il cancelliere aggiunge che, in ogni caso, presto l’Albania farà parte dell’Unione, e che quindi l’accordo stipulato tra Meloni e Rama è ricondotto alla «questione di come risolvere insieme sfide e problemi nella famiglia europea».

In conclusione, è difficile prevedere gli effetti di questo protocollo, che in ogni caso dovrebbe entrare in funzione solo nella primavera 2024. Tante sono le incertezze interpretative e i “dettagli” omessi. Un esempio su tutti riguarda lo “smistamento” delle persone migranti che dovranno rimanere in Italia da quelli che saranno condotti in Albania.

Infatti, non è stato spiegato come, dove e quando saranno separati dagli altri migranti i “soggetti vulnerabili”, che, a detta della Presidente Meloni ma non del protocollo stesso, non verranno trasferiti in Albania.

Molto dell’applicabilità effettiva di questo protocollo, in ogni caso, dipende dall’opinione dell’Europa in merito. L’esito definitivo della valutazione non è ancora giunto, ma il 15 novembre la Commissaria agli Affari interni dell’UE, Ylva Johansson, ha reso noto un parere preliminare della Commissione Europea: l’accordo italo-albanese non viola il diritto comunitario, perché ne è al di fuori. In pratica, poiché l’Albania non è uno Stato membro, non si possono applicare al suo territorio le norme comunitarie. Tuttavia, poiché la legge applicata ai centri sarebbe quella italiana, che a sua volta deve rispettare «i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (articolo 117 della nostra Costituzione), quest’ultimo troverebbe comunque un suo spazio, seppur indiretto.

Si tratta chiaramente di un ragionamento normativo molto complesso, che mostra quanto il nostro Paese sia ormai interconnesso all’Unione. Dunque, ora non si può far altro che attendere la versione finale delle valutazioni in corso, ma anche una strategia comune più concreta da parte dell’UE.

Beatrice Lanza
Amo creare playlist per ogni situazione e inventare teorie sociologiche di sana pianta. Le storie raccontate bene sono da sempre una delle mie cose preferite. Nel tempo libero studio giurisprudenza alla Statale.

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