Del: 17 Dicembre 2023 Di: Emma Pierri Commenti: 0
Oil is the new black. Il fast fashion nei nostri armadi

In un periodo in cui le tendenze cambiano più velocemente di un battito di ciglia, a tutti è capitato di acquistare qualche capo d’abbigliamento in un negozio fast fashion. È questo che lo rende attraente: è veloce, si trasforma continuamente, è sempre all’ultima moda e, soprattutto, è scandalosamente economico.

In particolare per i più giovani, il fast fashion è l’alternativa più comoda e confortevole quando si tratta di vestiti. Eppure, se da una parte gli sfarzosi vestiti acquistabili tramite fast fashion hanno un basso costo stampato sull’etichetta, il prezzo da pagare a livello ambientale è incomparabile.

Il 63% dei vestiti nei negozi, negli armadi e che si indossano ogni giorno sono composti da materiali sintetici derivati dalla plastica. 

Questi materiali vengono prodotti con il petrolio. Il poliestere è il più utilizzato: deriva dal polietilene tereftalato, un composto chimico comunemente noto come PET, ed è lo stesso materiale che si utilizza per le bottiglie di plastica. La produzione di poliestere si basa su combustibili fossili e un processo di produzione ad alto contenuto di carbonio, responsabile del 40% delle emissioni causate dall’industria della moda. 

Ma non è solo la loro produzione ad essere inquinante: ogni volta che si lava un capo fatto di poliestere, questo rilascia microplastiche che finiscono nell’oceano, inquinando tutti gli anelli della catena alimentare. Inoltre, i vestiti sintetici non sono riciclabili né biodegradabili. 

La ragione per cui i brand fast fashion utilizzano incessantemente le microplastiche nei loro prodotti è a causa del loro bassissimo costo, che permette a brand come SHEIN e Temu di mantenere a loro volta prezzi così bassi. 

Ma non si tratta solo di uso e abuso di petrolio:

l’industria della moda consuma circa 79 miliardi di metri cubi d’acqua per l’irrigazione delle piantagioni di cotone e per la lavorazione industriale dei vestiti. 

Questa quantità d’acqua sarebbe sufficiente per sostentare per un anno intero circa 110 milioni di persone. L’industria tessile è tutt’oggi uno dei principali inquinatori di acqua pulita al mondo: il trattamento e la tintura dei tessuti rappresenta circa il 20% di tutto l’inquinamento idrico industriale.

Per aggirare le norme ambientali, i giganti della moda affidano la loro produzione a fabbriche collocate in paesi in via di sviluppo, dove queste norme vengono osservate con scarsa attenzione: così, le sostanze chimiche vengono spesso scaricate in corsi d’acqua, inquinando le falde acquifere. Inoltre, questi paesi sono noti anche per gli scarsi diritti dei lavoratori: ogni anno, 40 milioni di lavoratori producono circa 1,5 miliardi di vestiti nonostante gli vengano negati i diritti fondamentali, salari equi e condizioni di lavoro etiche.

Gli «scheletri nei nostri armadi» sono fatti di petrolio, acqua sprecata e sudore di persone in pessime condizioni di lavoro.

E questo è un prezzo che non ci si può più permettere di pagare. Il futuro della moda deve essere circolare: materiali naturali, riciclabili, e biodegradabili come il legno, le piante, le alghe, la canapa, il cotone, e il lino, che sono alcuni degli ingredienti per raggiungere un mondo della moda ecosostenibile.

È necessario cambiare il modo in cui la moda viene prodotta e percepita, non si può più ricorrere al sovraconsumo e alla sovrapproduzione per rafforzare la propria accettazione sociale. Bisogna utilizzare capi di lunga durata e buona qualità, che durino più e più anni, e riciclare o aggiustare quelli che già si possiedono. Se non ci si indirizza verso questa strada, le conseguenze a livello ambientale saranno catastrofiche e irrimediabili.

Articolo di Emma Pierri.

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