Del: 30 Gennaio 2024 Di: Michele Cacciapuoti Commenti: 0

«È come combattere un drago: tagli una testa e ne crescono due. Ne tagli due, ne appaiono quattro.»

Così descriveva i cercatori d’oro Ilsur Irnazarov sul social russo VKontakte, lo scorso aprile. Irnazarov è un attivista della Baschiria (una regione della Russia meridionale situata fra il Volga e gli Urali), almeno stando a Idel Realities, braccio locale della Radio Free Europe a finanziamento governativo statunitense. L’attivista avrebbe esposto le proprie idee nell’aprile del 2023, durante una manifestazione contro l’attività mineraria nella città baschira di Ishmurzino.

Difficile supporre che allora prevedesse la reazione a catena che avrebbe portato, nel gennaio del 2024, a quella che è stata definita come “una delle più grandi proteste in Russia dall’invasione dell’Ucraina”. 

La Baschiria, nota localmente come Bashkortostan, è storicamente abitata da una popolazione di lingua turcica vicina al kazako e primariamente di religione islamica sunnita. Il vero protagonista della storia è però un altro attivista presente alla manifestazione, come riportato da Mediazona, testata russa anti-putinista fondata dalle Pussy Riots: si tratta di Fail Alsynov. Anche Alsynov ha pronunciato un discorso contro le miniere d’oro, ma è stato il tono localista e autonomista (auspica il ritorno in patria dei diversi gruppi etnici, inclusi i kara halyk, letteralmente “la gente nera”) a portare il presidente baschiro Radij Khabirov a sporgere denuncia verso l’attivista, che ad ottobre del 2023 è stato arrestato. 

Il presidente baschiro Khabirov

La motivazione ufficiale da un lato condanna le parole filo-baschire di Alsynov rivolte contro il governo federale della Russia, ma dall’altro usa anche a pretesto la locuzione stessa kara halyk, definendola razzista e offensiva nei confronti delle popolazioni caucasiche. I sostenitori dell’attivista rigettano tale interpretazione, considerandola falsata da una cattiva traduzione dal baschiro al russo. La sentenza del tribunale sul caso di Alsynov, da tempo impegnato a favore del particolarismo linguistico-culturale della Baschiria, era attesa per il 15 gennaio di quest’anno, giorno in cui una folla si era riunita in suo sostegno (come mostrato sul portale dell’ONG OVD-Info). In seguito alla condanna a quattro anni di carcere, emessa il 17 gennaio, i sostenitori di Alsynov si sono scontrati a centinaia con la polizia nella città di Bajmaq.

Il Guardian (che riprende la definizione di “una delle più grandi proteste dal 2022” dal giornale investigativo indipendente Agentsvo) dà un’immagine forse un po’ romantica di questi manifestanti, che avrebbero combattuto contro i manganelli e il gas lacrimogeno degli agenti a suon di palle di neve. In ogni caso, fra arresti e feriti se ne conterebbero a dozzine. Secondo la nota testata dissidente Meduza, è già stata aperta un’indagine sui manifestanti per incitamento alla rivolta e aggressione alla polizia, mentre i canali Telegram che avevano documentato gli scontri sarebbero stati oscurati. Non solo: Agentsvo riporta che le autorità locali hanno organizzato per il 26 gennaio una contro-manifestazione nella forma di un concerto a favore del presidente Khabirov.

Il sentimento antirusso dei Baschiri è in ogni caso di gran lunga antecedente alla guerra in Ucraina del 2022.

Se in epoca staliniana si verificò il passaggio dall’iniziale multiculturalismo alle politiche di russificazione (con effetti che durano ancora oggi), dopo la caduta dell’URSS il presidente russo El’cin firmò il Trattato di Federazione del 1992, che istituiva alcune “repubbliche sovrane” (la più popolosa è oggi proprio la Baschiria) dall’autonomia non indifferente. Questa situazione fu messa in discussione dall’ascesa di Putin (sull’onda della repressione al separatismo ceceno): nel 2000, meno di una settimana dopo essersi insediato come neo-presidente eletto, riformò la Federazione Russa in senso centralista, riducendo le autonomie locali dal Caucaso alla Jacuzia. L’effetto non fu ovunque immediato, ad esempio in Tataria il processo fu ultimato solo nel 2017, mentre nella stessa confinante Baschiria il preesistente leader Rakhimov rimase al potere fino al 2010.

Appena dopo la riforma di Putin, il Guardian descriveva il rapporto “feudale” del presidente baschiro col governo federale: se Rakhimov manteneva un regime autoritario e rivendicava autonomia (ma non indipendenza) dal centralismo di Putin, quest’ultimo tendeva a chiudere un occhio finché la Baschiria votava al 68% per lui, che peraltro rappresentava il faro anche dell’opposizione a Rakhimov. Ad ogni modo, vale sottolineare come Mosca criticasse al tempo l’autoritarismo del presidente baschiro riconducendolo agli strascichi del totalitarismo sovietico: una contrapposizione retorica riemersa nella propaganda di guerra di Putin nel 2022 e che ridiscute alcune superficiali interpretazioni dell’imperialismo putiniano come in totale continuità con quello dell’URSS.

La guerra in Ucraina non è peraltro da considerare del tutto aliena alle sommosse di Bajmaq di questo gennaio. Infatti, nei discorsi tenuti durante le manifestazioni del 2023 contro le miniere d’oro si menzionano «i nostri ragazzi […] lontani da casa», con riferimento alla mobilitazione in Ucraina (plausibilmente sofferta in quanto tale, non per solidarietà col popolo invaso, tanto che negli stessi appelli si palesa insofferenza verso i fornitori di armi occidentali). Mediazona, già il giorno d’inizio dell’“operazione speciale” in Ucraina, scrive che Alsynov aveva definito la coscrizione come un «genocidio dei Baschiri […] non la nostra guerra», venendo per ciò multato. 

Che cosa lega dunque l’autonomismo baschiro alla guerra in Ucraina e perché l’attivista ha parlato di un genocidio?

Dal 2022, la guerra contro Kyiv ha colpito, per numero sia di coscritti sia di caduti, soprattutto le minoranze etniche residenti ai margini della Federazione Russa, specialmente nell’Est. Intervistata da PBS nel 2023, la fondatrice di Free Russia Foundation Natalia Arno ha messo in luce la correlazione fra «genocidio degli Ucraini» ed «etnocidio delle minoranze», termini forse giuridicamente enfatici ma che evidenziano come il peso iniquo della leva militare abbia allontanato parte della popolazione dalla retorica favorevole alla guerra.

È accaduto nella regione sudorientale della Buriazia, abitata da una consistente minoranza di etnia e lingua mongolica, che secondo PBS fornisce 75 volte i soldati coscritti a Mosca. La CBC, testata a partecipazione statale canadese, specifica che la Buriazia è il primo fornitore di soldati pro capite, mentre in numero assoluto è seconda al Dagestan, repubblica caucasica a maggioranza islamica (lì si era verificato il tentato pogroantisemita a ottobre del 2023).

La mobilitazione mirata delle minoranze ha d’altronde un antecedente almeno nei “guerrieri buriati di Putin”, in Donbass dal 2015, secondo la presidente della Free Buryatia Foundation (che avrebbe aiutato diversi disertori a fuggire in Mongolia e Kazakistan). Le minoranze di queste regioni vengono maggiormente colpite perché considerate più facilmente assoldabili, date le condizioni di vita meno agiate, ma anche perché il loro eventuale scontento risulta più gestibile, lontano dalle élite di Mosca o San Pietroburgo, più interessate ai «soldati dagli occhi blu», per citare il politologo Pavel LuzinSui generis la condizione della Cecenia, attivamente impegnata in Ucraina ma dal ruolo soprattutto propagandistico, analizzato in precedenza su Vulcano.

Lo stesso giorno degli scontri a Bajmaq, la controversa testata statale russa TASS riportava una dichiarazione di Putin riguardante una minaccia al lato opposto del continente, sul Mar Baltico: il presidente russo faceva riferimento al provvedimento di “deportazione” di circa un migliaio di persone con cittadinanza russa dalla Lettonia in mancanza di una certificazione linguistica, preannunciato a fine 2023. Il rapporto fra la zona balto-polacca, l’immigrazione e la Russia è eufemisticamente definibile un punto nevralgico nell’identità valoriale europea. Basti pensare al riversamento di migranti coordinato dalla Bielorussia dal 2021 e alla costruzione di muri al confine di Polonia e Lettonia negli anni seguenti.

Dunque, globalmente, il clima risulta ancora teso.

Il 18 gennaio il braccio europeo della NATO ha annunciato le più massicce esercitazioni dai tempi della Guerra Fredda (precisamente dal 1988), le Steadfast Defender da tenersi a maggio anche nella zona balto-polacca (col contributo della Svezia, a indicarne il prossimo ingresso nell’alleanza). Poco dopo, l’ammiraglio olandese Bauer, a capo del Comitato Militare NATO, ha invocato un costante «codice rosso» per «aspettarsi l’inaspettato» e il think thank britannico IISS ha descritto una Russia ormai disinvolta nelle minacce nucleari, a fronte di una percepita reticenza occidentale nelle eventuali risposte militari.

L’ammiraglio Bauer

Proprio fra Polonia e Lituania si situa infine il Corridoio di Suwałki, un lembo di terra che connetterebbe la Bielorussia all’exclave russa di Kaliningrad, al centro di un ipotetico piano difensivo del governo tedesco svelato dal tabloid Bild questo gennaio e ridimensionato a semplice scenario congetturale. Del resto a dicembre 2023 la Germania ha concordato con la Lituania l’invio di quasi 5000 soldati proprio vicino al Corridoio di Suwałki, che il governo tedesco ha definito «fianco orientale [della NATO] spostato a Est».

Non è sempre facile distinguere fra minacce realistiche (quelle ignorate prima dell’invasione dell’Ucraina) ed evocazioni apocalittiche da parte dei media (cui siamo abituati nella memoria recente, almeno dalla crisi USA-Iran del 2020). Per motivi diversi risultano sicuramente degne di attenzione, alla luce dello sviluppo bellico, la Russia più remota e quella più europea.

Michele Cacciapuoti
Laureato in Lettere, sono passato a Storia. Quando non sto guardando film e serie od osservando eventi politici, scrivo di film, serie ed eventi politici.

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