Il diritto all’aborto in Italia è stato introdotto per mezzo della Legge 194 del 1978, un traguardo per le femministe della seconda ondata conquistato in seguito a proteste e manifestazioni. Essa consente alla donna, nei casi previsti, di poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in una struttura pubblica, come un ospedale o un poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza.
Le basi di questa legge furono però gettate tre anni prima, quando la Corte Costituzionale, con la storica sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, consentì il ricorso all’IVG per motivi gravi, motivando che non era accettabile porre sullo stesso piano la salute della donna e la salute dell’embrione o del feto. Da qui l’affermazione del principio per cui il diritto alla vita e alla salute della donna sono primari rispetto ai diritti di un embrione, che persona deve ancora diventare.
Questa sentenza è una prova concreta della compressione proprio dei diritti dell’embrione. In merito, la legge prevede due bilanciamenti: innanzitutto tra una vita già esistente e una vita futura, ma anche tra il diritto alla salute e all’autodeterminazione della donna e la libertà di obiezione di coscienza per gli operatori sanitari.
Ma la compressione di questi diritti è davvero alla pari?
Il dubbio riguarda principalmente il diritto all’obiezione di coscienza. L’introduzione di quest’ultimo, secondo alcuni, ha rappresentato un compromesso per lasciare altrettanto liberi gli operatori sanitari già in servizio di astenersi dall’intervento e dalle attività ausiliarie consone alla procedura. Ad oggi dunque sarebbe obsoleto perché i medici entrano in servizio molto dopo l’emanazione di questa legge. D’altro canto, però, tale diritto fa parte del codice deontologico della professione medica e trova riscontro, secondo una parte di studiosi, nell’art. 2 della Costituzione come diritto inviolabile dell’uomo.
Nonostante il dibattito abbia una forma prettamente teorica, è il caso concreto che andrebbe analizzato in Italia. La compressione dei due diritti è lecita al fine di raggiungere il compromesso. La LAIGA, Libera Associazione Italiana Ginecologi mette in risalto il problema dell’eccesso di obiettori di coscienza e, di conseguenza, la necessità di porre dei limiti.
Un medico obiettore dovrebbe infatti sempre consigliarne uno non obiettore alla donna, oppure a livello regionale dovrebbe esserci una percentuale più o meno paritaria di consultori e centri specializzati che si possano occupare dell’IVG, fatto che i dati regionali smentiscono. I più recenti risalgono al periodo della pandemia e presentano numeri a dir poco preoccupanti: regioni come Basilicata, Molise, Sicilia e la provincia autonoma di Bolzano superano l’80% dei medici obiettori di coscienza; in Puglia, Campania e nelle Marche questa percentuale si attesta intorno al 70%, mentre solo in tre regioni si colloca sotto al 50%: Emilia Romagna, Trento e Valle D’Aosta.
In aggiunta alla questione relativa alla compressione dei diritti, la legge 194 del 1978, grande conquista dell’epoca, risulta ad oggi da rinnovare considerando la presenza di alcune criticità.
Queste ultime sono racchiuse negli artt. 5 e 6 della legge, nei quali si riscontrano evidentemente degli ostacoli più o meno velati con l’obiettivo di complicare il processo di IVG. Riguardano in primo luogo la possibilità dei consultori di far “riflettere” la donna sulle conseguenze, offrendo eventualmente aiuti “in modo tale da far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre”. Successivamente, stabiliscono un periodo massimo di 90 giorni entro cui eseguire l’intervento. Questo termine viene derogato solo in situazioni di grave minaccia per la salute della donna, limitando così un diritto che, in determinati casi, impone di dover cambiare Paese per sottoporsi all’intervento.
D’altronde, la legge 194 non è stata altro che un compromesso onorevole, come specifica la filosofa ed attivista Luisa Muraro in un’intervista. Queste specificazioni riflettono la posizione radicale della Democrazia Cristiana, che hanno acconsentito a quelle condizioni con il solo obiettivo di mettere fine agli aborti clandestini che avvenivano a dismisura nei primi anni ‘70; dunque è dimostrato ancora una volta quanto la matrice ideologica fosse prioritaria rispetto al principio di autodeterminazione della donna.
Quindi, è ancora necessario parlare di IVG in Italia?
La domanda si potrebbe rivolgere a Simone Billi, esponente della Lega, che oltre quarant’anni dopo l’entrata in vigore della Legge 194 afferma: «L’aborto non è un diritto, è ingiusto anche in caso di stupro e sarebbe un uso improprio della libertà e della responsabilità» , aggiungendo che si tratta di una «degenerazione del ruolo materno anche in caso di vittime di stupro».
Il quesito si potrebbe porre anche alla ministra per le pari opportunità e per la famiglia Eugenia Roccella, che ricorda come «l’aborto sia purtroppo un diritto», o per finire al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che vorrebbe intervenire sulla 194 per applicarla integralmente, rafforzando proprio le parti che riguardano la “tutela della maternità”, piuttosto che la scelta della donna di non perseguirla affatto.
Articolo di Annachiara Esposito