Giovedì 28 dicembre un ponte tra politica e affari è finito sotto le luci della ribalta, quando Tommaso Verdini, figlio dell’ex senatore di Forza Italia, Denis Verdini, è stato messo agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta della procura di Roma, facendo emergere un caso di corruzione che ci riporta la memoria agli indimenticabili anni ’90.
La presunzione di innocenza è d’obbligo, certo, ma ciò non toglie l’importanza di cogliere l’occasione per guardare all’atteggiamento che il governo Meloni, da quando si è insediato, ha assunto nei confronti della corruzione e della criminalità in generale. Atteggiamento che, condivisibile o meno, può dirsi tutto fuorché lineare.
Le accuse mosse dalla procura di Roma sono chiare:
la società di consulenza Inver, di cui Verdini è a capo, avrebbe ricevuto somme di denaro da parte di diversi imprenditori in cambio di informazioni, ottenute da funzionari Anas (società statale che si occupa di infrastrutture stradali), relative ai bandi per le gare d’appalto. Risultato? Vincita delle gare assicurata per gli imprenditori, nonché promozioni e favori per i dirigenti Anas (grazie ai contatti dei Verdini con vari esponenti della politica). Uno schema già visto, insomma. Una storia già sentita.
È bene ricordare che la corruzione costa all’economia italiana 237 miliardi l’anno (circa il 13% del PIL) e che il sistema degli appalti pubblici fa parte di quei settori in cui, a causa degli ingenti flussi di denaro coinvolti, il rischio di fenomeni corruttivi è sempre alle porte.
L’atteggiamento del governo nei confronti del settore però è stato chiaro fin da subito e si può riassumere in poche parole: riduzione dei controlli, sburocratizzazione, semplificazione delle procedure. La ratio è intuibile: solo liberalizzando il sistema, attraverso una progressiva deregolamentazione all’insegna di una genuina fiducia nelle imprese, è possibile ridare una spinta all’economia e attivare i lavori di molte più opere pubbliche.
Emblema di questo atteggiamento è il nuovo codice degli appalti, ribattezzato “Codice Salvini“, in base al quale, come evidenziato dall’Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione), il 98% dei lavori pubblici sarà affidato senza gara e, di conseguenza, i rischi di corruzione saranno dietro l’angolo.
Il problema è che un minor controllo, presentato come semplice alleggerimento della burocrazia, comporta inevitabilmente minor trasparenza.
E minor trasparenza significa aumento dei rischi di infiltrazioni e corruzione e, di conseguenza, costi aggiuntivi a carico dello Stato, minor qualità dei lavori e ostacolo alla competitività.
A fronte di queste problematiche, e tenuto conto delle importantissime sfide che il nostro Paese deve ancora affrontare a proposito del PNRR, emerge un quesito fondamentale: l’atteggiamento garantista assunto dal governo può davvero rappresentare una soluzione adeguata per un settore così suscettibile di essere coinvolto in fenomeni di corruzione? La riduzione dei controlli non rischia forse di trasformarsi in negligenza di fronte ai rischi di cattiva gestione di un ambito così delicato e importante come quello delle opere pubbliche e delle infrastrutture?
Ma la linea garantista del governo Meloni non finisce qui. Basti pensare alle riforme presentate dal Ministero della Giustizia: tra le modifiche previste, emerge la proposta di abolizione del reato di abuso di ufficio, nonostante questo, come anche evidenziato dall’Anac, indebolirebbe notevolmente la lotta alla corruzione e andrebbe a creare un vuoto di tutela.
Per non parlare della recente “legge bavaglio”, l’emendamento presentato da Enrico Costa (Azione) alla legge di delegazione europea, che andrebbe a introdurre il divieto di pubblicazione «integrale o per estratto» del testo dell’ordinanza di custodia cautelare, la quale sarebbe quindi pubblicabile solo nella forma di riassunto. Per fare un esempio, se questa legge fosse già stata in vigore all’alba del caso Verdini, sui giornali avremmo appreso della vicenda solo sulla base dei riassunti e delle mediazioni dei cronisti, con il probabile risultato di una narrazione poco oggettiva e difficilmente puntuale.
Alla luce di queste considerazioni, potrebbe sembrare che la parola chiave di questa legislatura sia “garantismo”. Ed è corretto, ma solo in parte. Questo termine, infatti, può riferirsi soltanto a una parte delle attuali politiche governative, tra cui, in particolare, quelle che abbracciano il mondo dell’imprenditoria.
C’è poi tutta un’altra serie di politiche che sembrerebbero provenire da una maggioranza diversa, da una maggioranza che ha fatto del giustizialismo la sua bandiera.
Dall’introduzione di nuovi reati — come la rivolta in carcere e il blocco stradale previsti dal “pacchetto sicurezza” — all’inasprimento delle pene per i casi di criminalità minorile (decreto Caivano), alle norme più severe in materia di immigrazione, il volto giustizialista del governo non ha esitato a mostrarsi. E non si tratta di incoerenza, perché questi due orientamenti, opposti ma complementari, sono sintomo di uno stesso fenomeno: populismo.
Di fronte a fatti di cronaca che scuotono l’opinione pubblica, si provvede subito con l’introduzione di nuove o più dure figure di reato, così da soddisfare i giustizialisti del momento attraverso soluzioni semplici e immediate a problemi complessi. I nuovi reati o inasprimenti di pena, d’altra parte, riguardano quasi sempre la componente debole della società, quella che non ha (o non ha ancora) diritto di voto e che quindi è irrilevante in termini di consenso.
Spiazzante osservare che, anche a fronte di queste prese di posizione così dure, ci sia poi un atteggiamento molto più morbido e garantista su molti altri fronti: meno regole e meno controlli per tutti quei settori dove i reati fanno poco scandalo e, soprattutto, non sollevano gli animi della componente forcaiola del Paese.
Ritornando allora al caso Verdini e, in particolare, all’atteggiamento tendenzialmente garantista del governo Meloni in termini di lotta alla corruzione, possiamo dire che il punto critico non consiste nel garantismo di per sé, quanto nella scelta selettiva degli ambiti a cui riservare queste politiche più miti e permissive, a discapito delle misure che sarebbero invece più idonee e necessarie settore per settore.
Alla luce dei recenti avvenimenti, possiamo solo augurarci una rinnovata presa di responsabilità da parte della politica che prescinda dagli interessi di parte e, soprattutto, dalle componenti sociali a cui si rivolge.