Del: 8 Gennaio 2024 Di: Giulia Perelli Commenti: 0
Il voluntourism è problematico?

Al Jazeera lo chiama “business degli orfani”, che è una definizione brutale ma realistica. Più bonariamente, il voluntourism è una formula di turismo che consente ai viaggiatori di trasformarsi in volontari per qualche giorno, svolgendo beneficenza nei più diversi ambiti: alcuni programmi offrono la possibilità di dedicarsi all’agricoltura, alla costruzione di scuole, alla conservazione della fauna marina (tra una surfata e l’altra). La gran parte, però, si focalizza su attività di supporto in orfanotrofi e strutture che ospitano minori in condizioni svantaggiate. I partecipanti non hanno requisiti specifici – se non quello di poter pagare migliaia di euro per prendere parte ai progetti – e sono specialmente giovani tra i 18 e i 25 anni.

Lo scetticismo verso queste forme di beneficenza è legittimo se si osservano tre elementi: il prezzo di queste pseudo-vacanze, le competenze dei partecipanti, i risultati.

Le organizzazioni intermediarie vendono pacchetti che includono vitto, alloggio e “volontariato”. Quest’ultimo elemento, nel campo umanitario specialmente, è più volte stato oggetto di criticismi: i volontari sono chiamati ad occuparsi dell’educazione di bambini orfani. La maggior parte di loro, non essendo insegnanti né educatori, si occupa di insegnare loro la lingua inglese e di intrattenerli. Un primo problema sorge con riguardo alle poco chiare modalità con cui vengono devoluti i fondi, raccolti con le tasse di partecipazione: in qualche modo le condizioni drammatiche di partenza non migliorano mai, nonostante le ingenti quantità di denaro ricevute e il lavoro dei volontari.

Questa incongruenza è stata più volte identificata come un buon escamotage per mantenere viva l’attrazione di nuovi aspiranti volontari e consentire alle società (straniere, mai locali) di arricchirsi grazie alle entry fees. Le prime vittime sono state i numerosi bambini ospitati presso gli orfanotrofi convenzionati a tali organizzazioni: in Cambogia, in Nepal e in Uganda si sono verificati casi di sfruttamento e abusi nei loro confronti. Il caso cambogiano è emblematico: l’80% di loro non erano nemmeno orfani, avevano almeno un genitore: la maggior parte provenivano dalle zone rurali circostanti la città ed erano stati sottratti alle loro famiglie con la promessa di un’educazione e un futuro più solido [1].

I centri di accoglienza dove sono stati accolti si trovano tutti, non a caso, nei quartieri più turistici delle grandi città, là dove suscitano più engagement e dove il bacino di potenziali benefattori è più ampio. La situazione dei piccoli ospiti è nebulosa: senza identità, lì per soddisfare l’industria del volontourism ma senza trarne alcun beneficio (in merito, questo documentario che contiene anche le testimonianze dirette di alcune vittime:. Si sono ritrovati in baracche malmesse, senza materassi e persino a cielo aperto, malnutriti ed esposti a violenze e sfruttamento. Qui si unisce un secondo, enorme problema: i volontari stessi e i loro ruoli educativi. Per queste attività, nei loro stati di provenienza, si richiedono competenze specifiche, studi approfonditi o perlomeno una esperta supervisione, qui (rectius: in tutti gli stati sottosviluppati dove si svolgono i progetti gentilmente offerti dalle organizzazioni occidentali) possono diventare insegnanti senza nemmeno aver presentato un criminal record.

Questo, unitamente al ridotto numero di ore dedicate allo studio, all’incostanza delle lezioni e all’incompetenza dei volontari rende inefficace il percorso scolastico. Insomma, l’esito di queste missioni “turistiche” è disastroso. Infine, il continuo e rapido ricambio di personale (le vacanze impegnate non durano più di due settimane) ha un effetto negativo sullo sviluppo affettivo di questi bambini che non riescono a costruire un rapporto significativo con i loro educatori.

Spesso si pensa che per coloro che si trovano in condizioni svantaggiate qualsiasi aiuto sia un toccasana. Non è così. L’aiuto deve essere competente, altrimenti si costruiscono case che crollano, per fare un esempio anche poco drammatico. Nessuno ne esce arricchito.

Il rischio è che il volontario abbia la coscienza a posto ma che nel concreto sia stata tutto una farsa.

Esiste un altro rischio, più insidioso: Pippa Biddle, per l’Huffington Post, ha ricollegato a questi avvenimenti il concetto del White Savior Complex: gli occidentali che si incaricano di salvare i cittadini dei paesi in via di sviluppo. Tale complesso affonda le sue radici nel periodo storico del colonialismo: compare per la prima volta nella poesia di Rudyard Kipling, il fardello bianco (1899), assunta a manifesto della colonizzazione del mondo non europeo (nasce con riferimento al territorio filippino ma si estende ben presto anche al continente africano). Oggi ha assimilato un connotato critico e sarcastico: il bianco che fornisce aiuto a persone non bianche, in contesti missionari o umanitari, spinto da motivazioni egoistiche, esibizionistiche.

Nell’ambito del voluntourism il fenomeno del White saviour è addirittura rafforzato: i volontari possono agire persino quando non hanno competenze specifiche, è sufficiente che prestino il loro privilegio e possano gongolarsi della loro bontà. E questa non è una critica sconsiderata: Damian Zane, writer per la BBC Africa, nel suo articolo sul fenomeno Barbie Savior, ribadisce che l’atteggiamento da onnipotente salvatore – bianco – è considerato offensivo da parte della popolazione africana, somigliando tanto a forme di moderna colonizzazione. E, sempre Zane, suggerisce un altro output negativo di questo tipo di volontariato: genera un affidamento sconsiderato negli aiuti stranieri e l’indebolimento dell’economia locale – il ruolo di professionisti è sostituito da volontari inesperti (e a costo zero), uccidendo lo sviluppo delle imprese in loco.

In questo habitat, i volontari, data anche la loro giovane età, sono tenuti ignari di quanto accade veramente e le loro esperienze positive sono magneti per altri aspiranti.

A proposito, Vice, un anno fa, aveva pubblicato un’intervista a una di loro, rimasta in incognito . Aveva descritto il fenomeno del voluntourism come uno strumento con cui “you can change the world and find yourself”. Ma poi, più onestamente, sta davvero bene sul curriculum, quanto fa effetto sulla lettera motivazionale per l’università? Raccontava anche di aver costruito strutture che venivano poi distrutte nella notte. Così, gli ignari volontari, avrebbero speso due settimane a sentirsi utili e caritatevoli, solo per essere sostituiti da altri coetanei che avrebbero rifatto la stessa cosa, in un loop infinito. Totalmente inutile. Intanto si è perso di vista il significato concreto dell’attività svolta: il volontariato non è eroismo né un diversivo, coinvolge le sorti di persone svantaggiate che dopo due settimane non torneranno a casa in aeroplano, alla realtà di chi vive nella parte fortunata del mondo. Non può essere una volgare propaganda di privilegio né un business. E neanche quando le intenzioni sono meritevoli, se mancano le competenze, gli esiti possono essere nefasti. Il volontariato è un fatto nobile e utile ma solo quando svolto con rispetto dei destinatari. Insomma, non è sufficiente fare del bene, deve essere fatto bene.

Giulia Perelli
Vivo di viaggi, di libri e di esperienze. Scrivo di tutto quello che vedo e sono un moto perpetuo. Sono una studentessa di giurisprudenza e di tutto quello che mi capita di voler imparare. Sono l’artista meno artista di sempre. Nella vita devo solo poter raccontare, parlare e fotografare.

Commenta